Alla ricerca del forum perduto

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view post Posted: 4/3/2018, 09:00 Una voce dai blogs - The others

Per chi non voto domenica

di Tomaso Montanari

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"Tempo pessimo per votare". L'incipit del Saggio sulla lucidità di José Saramago sembra scritto per questi giorni. E non per questa coda crudele di inverno, ma per lo sfilacciamento terribile del tempo politico, civile, sociale in cui il popolo italiano è chiamato a votare. Nel romanzo di Saramago quelle elezioni finiscono con il 70% di schede bianche. Vengono ripetute: e le schede senza voto salgono all'83%.

Provando a guardare con un briciolo di lucidità alle elezioni di domenica prossima, ci sarebbe da aspettarsi che finiscano nello stesso modo. Quasi da desiderarlo. E se tutti coloro che non sanno cosa votare andassero comunque a depositare una scheda nelle urne, quello sarebbe davvero il risultato finale.

Mai così grande è stata l'incertezza e lo spaesamento: a sinistra, intendo. Perché il blocco ormai dichiaratamente fascista ha invece le idee assai chiare. Se, come sembra certo, vincerà la Destra, questa destra orrenda, potrà farlo grazie alla scomparsa della Sinistra: che si è progressivamente spostata a destra, fino a essere inutile, come il sale che perde il suo sapore. E che serve solo a essere calpestato dagli uomini.

Io non lo so ancora per chi voterò. So che al seggio ci andrò: troppo sangue è costato il diritto di tornare a votare, troppo pericoloso dare una mano al suicidio della democrazia.

Ma per chi votare? Per chi vota un cittadino che vorrebbe vedere attuato il progetto della Costituzione? Uno che pensa che lo sguardo più rivoluzionario sul mondo sia oggi quello della Laudato sii di Francesco; uno che si riconosce fino in fondo nell'analisi di Tony Judt; uno che voterebbe senza esitazioni per Corbyn?

Non c'è bisogno di spiegare perché il Pd (non solo questa roba terrificante del Pd di Renzi, ma già quello di Veltroni e anche il Centrosinistra dalla fine degli anni Novanta) rappresenti esattamente il contrario delle mie idee.

Ho provato ad argomentarlo nella relazione di apertura all'assemblea del Brancaccio del 18 giugno scorso. Ho provato a spiegare perché il Pd è una forza di destra. E dunque si capirà perché credo che non si possa votare non solo questo Pd, ma neanche tutta le forze che si coalizzano con esso: da Insieme sostenuto da Romano Prodi (che triste epilogo!), a Più Europa di Emma Bonino. Dichiaratamente liberista, la Bonino: socialmente di destra, ultra-atlantista, berlusconiana al momento giusto. E oggi madonna del rifugio per i benpensanti destro-renziani, fintamente pentiti.

Sulla grigia compagine di Liberi e Uguali penso purtroppo le stesse cose che pensavo quando mi sono rifiutato di partecipare alla sua nascita. Anche peggio: era difficile fare tutto il contrario di ciò che si doveva fare. Ma lo si è fatto, in una climax ascendente di masochismo.

Lo dico con estremo rispetto per i militanti (in buona parte, peraltro, depressi e delusi) e con un senso terribile di frustrazione, ma LeU è l'operazione di un ceto politico disperatamente, e ostentatamente, impegnato a sopravvivere.

Un raggruppamento che si distingue dal Pd per l'assenza del Giglio Magico. Mica poco, mi direte. Vero: ma se quel Giglio sparisse, LeU riconfluirebbe subito nella pancia del Pd. Perché la sua visione del mondo e della politica è la stessa del Pd di Bersani del 2013: come certificano l'invenzione della "leadership" surreale di Piero Grasso; un programma troppo spesso vago, moderato, compromissorio; il rifiuto proclamato di abolire la Fornero; l'alleanza con Zingaretti del Piano Casa del Lazio; l'orribile spartizione delle liste; la totale assenza di democrazia interna, e molto altro ancora.

Nelle ultime ore si sono annunciate due cose. La prima è che LeU, dopo il 4 sarà un partito: e viene da piangere, pensando che per cucinare questo improbabile polpettone si è passata al tritacarne Sinistra Italiana, infinitamente più attraente, promettente, carica di futuro.

A me viene anche un po' da ridere, ricordando che tra Cosmopolitica e Rimini mi fu offerto di fare il segretario di SI: declinai; non è il mio mestiere, non l'avrei saputo fare. Ora mi accontenterei di poterla votare: e invece non esiste più.

Uccisa in culla con un cinismo raggelante. La seconda l'ha detta l'ineffabile Grasso: LeU è pronta a un "governo di scopo" con Berlusconi e Renzi, ma solo per fare la legge elettorale. Ora, è evidente che un governo governa, se non altro governa l'ordinaria amministrazione. Al minimo per i molti mesi (o anni) necessari a che in Parlamento si trovi la quadra di una nuova legge elettorale.

E davvero si può dire a tre giorni dalle elezioni che una forza che si presenta come alternativa e radicale sarebbe disposta a stare in un trappolone del genere? Sono seguite smentite che non smentivano, correzioni di rotta, vibranti dichiarazioni contrarie dei più giovani segretari.

Ma se il presidente del Senato (che sa bene che la legge elettorale la fa il Parlamento) parla di un governo, è un lapsus freudiano: che fa tornare il rimosso di un'ambiguità evidente fin dall'inizio. Se Draghi, Mattarella, l'Europa o qualche altra superiore autorità chiederà "responsabilità", i responsabili di LeU, che fino a ieri stavano nel Pd, scatteranno sull'attenti. Legittimo almeno temerlo, a questo punto.

E così no, non voterò per Liberi e Uguali. Pur ammettendo che avrei difficoltà a non farlo se nel mio collegio ci fosse una delle tante persone degnissime di stima che con LeU alla fine si sono candidate, più o meno col naso turato: Paola Bonora, Sergio Cofferati, Anna Falcone, Sandra Gesualdi, Filippo Miraglia, Claudia Pratelli, Claudio Riccio, per citare solo alcuni di quelli che eleggerei a occhi chiusi.

E dunque? Si può votare Potere al Popolo? Sul piano delle idee, certo che sì: sono in gran parte anche le mie. E capisco chi sceglierà di votarli. Ma, a parte il riciclaggio di un altro pezzo di ceto politico non meno decotto (quello di Rifondazione Comunista), quello che non mi convince è il settarismo, la caricaturale violenza verbale, l'ostentato disinteresse verso la costruzione di qualcosa di più grande.

Manca una visione larga, un piacere contagioso: manca un po' di amore. Ho una grande ammirazione per il mutualismo dell'ex Opg di Napoli, ma credo che non abbia avuto molto senso tradurre quella esperienza in una lista elettorale, con questi tempi e in questi modi. Perché mentre vien giù il Pd, spero per sempre, è imperdonabile dividersi tra cinici opportunisti e sterili testimoni.

Perché è chiaro che senza tenere insieme il popolo che vota LeU e quello che vota PaP, quello della Cgil e quello delle USB, quello dell'Arci e dell'Anpi e quello dei centri sociali: senza ricucire, cioè, queste due anime in un corpo solo, non si può nemmeno iniziare a riparlare di Sinistra, in Italia.

Era ciò che il Brancaccio aveva provato a fare: sbagliando troppe cose, e dunque fallendo. Non ha senso pensare di rifarlo così: non ci si bagna due volte nello stesso fiume. Ma i nodi che il Brancaccio sperava di sciogliere sono ancora tutti lì, più serrati che mai. E si dovrà ben trovare un modo (un altro modo) per scioglierli: perché io non mi rassegno a non sapere per chi votare, per sempre.

E allora? I 5 Stelle, forse? Bisogna pur riconoscere che moltissimi cittadini di sinistra votano per loro. E che, anzi, la massa, il popolo, l'eccedenza che la Sinistra non trova più è in gran parte lì, oltre che nell'astensione.

Ci sono i più poveri, i sommersi, gli sconfitti, i ragazzi: quelli a cui la Sinistra dovrebbe ricominciare a parlare. Ma non c'è dubbio che il Movimento, così come è oggi, non è di sinistra. Per gli ambigui silenzi sull'antifascismo, per le ambigue parole sui migranti, per le parole purtroppo chiare contro la patrimoniale, e per molto altro ancora.

E soprattutto per la sua sterzata "di sistema". Mi spiego. Il motivo per cui una parte del popolo di sinistra vota 5 stelle, è perché vi vede una forza programmaticamente anti-sistema: e chiunque viene schiacciato da questo sistema è tentato di votarli, se non altro per istinto di sopravvivenza. Magari sforzandosi, o illudendosi, di sentir gridare "giustizia" (sociale) laddove invece si grida "onestà".

Ma qualcosa è cambiato: la campagna elettorale è stata tutta giocata sull'integrazione nel sistema. Lo slogan implicito "non siamo barbari" rischia di scoraggiare proprio chi – come me – vorrebbe i barbari: per abbattere un impero marcio fino al midollo.

E questo pesa anche sui calcoli di chi – con un ragionamento, limitato ma concreto e prudente – vorrebbe votare non pensando ai massimi sistemi, ma più modestamente agli equilibri del prossimo Parlamento. Chi vuole in ogni modo scongiurare un governo Renzusconi non può votare LeU (come sta diventando chiaro in queste ore); non può votare con tranquillità Potere al Popolo (perché non è detto che entri in Parlamento: anche se io lo spero); e oggi si chiede pure se può o no votare Cinque Stelle (perché non è chiaro fino a che punto arriverà questa perniciosa integrazione nel sistema).

Un dilemma reso più complesso dalle posizioni del Movimento in tema di riforma costituzionale: la sbandierata determinazione a modificare l'articolo 67 introducendo il vincolo di mandato per i parlamentari rischia di essere un vero pericolo per la democrazia.

Perché vietando il dissenso per legge, e dando tutto il potere ai capi dei partiti non usciamo dalla palude: entriamo all'inferno. (Ed è, tra l'altro, per questo che ho declinato la gentile offerta di Luigi Di Maio di essere incluso nella lista dei ministri che egli potrebbe trovarsi a portare al Quirinale). Eppure, nonostante tutto questo, non c'è dubbio: quello per i 5 Stelle è l'unico voto che Berlusconi e Renzi temano davvero. Ma basta?

E dunque, tirando le somme, che votare? Scheda bianca? E dunque non lo so: so che è "tempo pessimo per votare". E so che ci penserò ancora, e poi ancora, da qui a domenica. E so che sarà una scelta silenziosa, privata: comunque vada non orgogliosa, non sicura, non da propagandare.

Ma so anche un'altra cosa. E cioè che la politica vera, la costruzione di una politica capace di invertire la rotta dell'Italia, ricomincia il 5 marzo. Con persone, per strade, in modi che oggi non riusciamo nemmeno a immaginare.

Il blog di Tomaso Montanari su HUFFINGTONPOST

view post Posted: 4/2/2018, 10:16 Patrizia Todisco ti voglio bene! - Politica

Ilva, copertura dei parchi minerali:

il “capolavoro” del Frankenstein dell’acciaio


di Giuseppe Aralla

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TARANTO – Un’opera enorme, alta poco meno di 80 m, lunga 700 m e larga 260 m, che utilizzerà oltre 60.000 t di acciaio e 200.000 t di calcestruzzo: questa la struttura che coprirà parte dei parchi minerali di Ilva e parte del nostro orizzonte. Verrà costruita utilizzando lo stesso acciaio prodotto dagli altiforni.

In biologia un processo del genere verrebbe classificato tra quelle forme di riproduzione asessuata, probabilmente una gemmazione, tipica degli organismi semplici, quali protozoi, alcune piante e alcuni animali quali cnidari e poriferi (spugne).

Siamo davanti ad un processo evolutivo della grande industria capace di autorinnovarsi provvedendo essa stessa a produrre i pezzi necessari alla propria struttura che si autocompongono. In un certo senso la lotta per la sopravvivenza che finora interessava esclusivamente organismi biologici ha subìto un salto di livello mai visto.

L’industria si autoripara e si riproduce autonomamente: è il sogno e la grande paura della robotica. Da adesso in poi cambia tutto: dovremo abituarci a considerare Ilva soggetto pensante e animato. La consapevolezza del sè ha pervaso il mostro, come se si trattasse di un Frankenstein d’acciaio.

Ilva da adesso in poi potrà modificarsi, ingrandirsi o rimpicciolirsi a seconda delle esigenze produttive e a seconda delle necessità potrà sfornare acciaio da utilizzare nella sua stessa struttura. Il vecchio che si autorigenera in un rinnovamento strutturale che supera i limiti del tempo.

Quell’industria ormai superata, vecchio macinino, come qualcuno l’aveva troppo frettolosamente definita, si dimostra capace di una seconda giovinezza, trovando in se stessa la forza del cambiamento nella lotta per sopravvivere.

Oggi tocca alla struttura che coprirà i parchi minerali, domani potrebbe essere una qualunque altra struttura necessaria nel processo produttivo ad autorigenerarsi per conquistare una nuova vita e questo processo si avvicinerà sempre più al mito del l’immortalità.

D’altronde il tempo è un concetto relativo per Ilva che è riuscita a superare ancora indenne l’anacronismo dei suoi impianti che sfruttano tecnologia del secolo scorso. Siamo testimoni di un qualcosa di grandioso, di epocale che trascende qualunque giudizio di merito su procedure autorizzative e impatto paesaggistico.

Chiniamo ossequiosamente il capo di fronte a questa opera architettonica che Taranto si onorerà di ospitare e siamone fieri come se si trattasse della cupola del Brunelleschi del Duomo di Firenze o il profilo dell’ermo colle leopardiano e non insudiciamone la fama che porterà alla nostra città con le solite stucchevoli critiche. Grazie Ilva, grazie Calenda. Taranto è capace di apprezzare l’ingegno e la maestosità del progetto (e anche l’ironia contenuta in questo articolo).

www.inchiostroverde.it

view post Posted: 18/1/2018, 12:14 Patrizia Todisco ti voglio bene! - Politica

Taranto, terra di mare e di pietre, che ha affidato il suo destino all’acciaio

di Giuseppe Aralla

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TARANTO – Popolazione e ambiente naturale sono due elementi strettamente legati e interdipendenti che si influenzano reciprocamente nella loro lenta e costante trasformazione. Il predominio dell’ambiente sull’uomo è stata la condizione che ha caratterizzato il pianeta Terra per gran parte degli ultimi duecentomila anni, fino a quando lo sviluppo tecnologico degli ultimi due secoli ha stravolto questo rapporto.

Caccia, pesca, raccolta dei frutti selvatici e una primordiale coltivazione della terra sono stati per millenni ben tollerati dall’ambiente naturale che riusciva a offrire sostentamento al genere umano senza che si creasse squilibrio tra quanto prodotto e quanto consumato.

L’Uomo ha cominciato a strutturarsi in comunità sociali meglio organizzate da quando ha imparato le tecniche agricole di rotazione delle colture e di allevamento che gli hanno permesso di occupare in pianta stabile un certo territorio evitando uno spreco di energie che i continui spostamenti determinavano.

In Puglia e nel nostro territorio in particolare, Uomo e Natura hanno mantenuto un buon equilibrio per millenni, dai primi insediamenti rupestri fino a pochi decenni or sono. Una volta rottosi questo equilibrio, la trasformazione del territorio e della popolazione stessa, intesa come insieme di peculiarità sociali e culturali, è stata rapidissima.

Quel rapporto stretto tra ambiente e popolazione che si poteva definire come peculiarità e vocazione territoriale e che si basava sullo sfruttamento sostenibile delle risorse naturali a disposizione, ad un certo punto si è rotto definitivamente e tale processo è stato tanto più traumatico laddove maggiore è stato l’impatto antropico.

Sorvolando su quelle fasi storiche di Taranto che l’hanno vista prima città importante della Magna Grecia, poi colonia romana e in seguito territorio dominato da diversi popoli (Goti, Bizantini, Longobardi, Aragonesi per citarne solo alcuni) fino all’inclusione nel Regno di Napoli (con alterne fortune e disgrazie che comunque hanno certamente lasciato un qualche segno nella formazione della coscienza della nostra comunità), limitiamoci a considerare il tipo di società che ci caratterizzava in tempi più recenti.

Una terra baciata dalla fortuna era quella di Taranto: mare e terre pianeggianti fornivano il necessario per un’economia certamente non ricca, ma sufficiente al fabbisogno di una città che, chiusa per secoli nei confini dell’antico borgo, tra fine ‘800 e primi del ‘900 cominciava ad espandersi oltre il Canale navigabile.

Pesca e coltivazione di mitili da una parte e coltivazione dell’olivo e della vite dall’altra erano le attività che caratterizzavano il territorio e popolazione. Taranto era, fino alla prima metà del secolo scorso, città d’eccellenza per la produzione di mitili allevati nel Mar Piccolo e conosciuti in tutta Italia per le ottime caratteristiche organolettiche.

Sterminate piantagioni di olivo e in minor parte di vite e mandorlo occupavano l’entroterra e contribuivano all’economia e all’occupazione locale, in un Meridione spesso più povero e arretrato. Le tante masserie, diffuse in tutto il territorio tarantino, rappresentavano veri e propri centri produttivi agricoli capaci di regolare per secoli lo sfruttamento del territorio.

Terra di mare e terra di pietre è Taranto. Nata sul mare e costruita utilizzando la pietra ricavata dallo scoglio su cui è sorta, conserva forse nella propria essenza questi due elementi. Bravi fummo a costruire barche per ricavare sostentamento dal mare e bravi fummo ad utilizzare la pietra per costruire case e muri a secco.

L’inaugurazione dell’Arsenale militare alla fine dell’800 e l’apertura di alcuni cantieri navali si inserirono abbastanza bene nel quadro generale dell’economia tarantina fornendo ulteriori opportunità di occupazione e sviluppo senza stravolgere in modo esagerato le tradizionali vocazioni del territorio.

Gli equilibri che per secoli avevano caratterizzato l’economia di Taranto in brevissimo saltarono però con il processo di industrializzazione degli anni ’60. Il passaggio da un’economia legata al mare e all’agricoltura ad una prettamente industriale fu rapidissimo a Taranto, così come in altre pochissime aree del Paese.

Le testimonianze video reperibili in rete della distruzione di migliaia di olivi secolari e decine di masserie per far posto alle ciminiere sono la diretta testimonianza dello scempio subito dal nostro territorio. L’Uomo aveva imposto il proprio dominio sull’ambiente in una maniera che nei decenni successivi sarebbe diventata forse irreversibile e insanabile. Inquinamento e devastazione del territorio in cambio di un momentaneo benessere economico: questo è avvenuto a Taranto e questo ha limitato in modo netto il nostro sviluppo in alcuni settori rispetto ad altre realtà locali.

L’impatto dell’industria sull’ambiente e la trasformazione dell’economia sono stati da noi troppo rapidi per essere completamente accettati dalla popolazione che ha dovuto subire un processo di adattamento che non ha rispettato i fisiologici tempi di maturazione e che ha generato disarmonia col territorio e disaffezione rispetto alle proprie radici culturali.

In particolare, laddove altre realtà territoriali hanno ormai da tempo intrapreso un cambio di rotta rispetto alle politiche industrialiste e si sono orientate verso un’economia più spinta verso il cosiddetto terziario (commercio, turismo, servizi), Taranto non ha optato per questa scelta.

Il terziario sviluppa certamente anche da noi maggior valore aggiunto rispetto all’industria, ma settori quali commercio e soprattutto turismo pagano un gap notevole rispetto ad altre realtà anche a noi contigue. Quella maggiore produzione di ricchezza generata dall’industria, Taranto la paga abbondantemente in altri settori che non generano la ricchezza che ci si aspetterebbe.

Il danno ambientale è inoltre l’ulteriore prezzo che il territorio ionico paga per gli effetti delle politiche industriali. Quale la vocazione reale di Taranto oggigiorno? Cosa forma la nostra attuale identità? Il mare, la terra, la pietra…o l’acciaio? Siamo tutti sull’orlo di una crisi di coscienza e spesso non ci riconosciamo nella realtà in cui viviamo. Sarà anche per questo che Taranto si spopola sempre più e tanti che vanno via non tornano più?

www.inchiostroverde.it

view post Posted: 3/1/2018, 09:18 Alessandro Robecchi - The others
Anno dei Signori 2017: ci hanno guadagnato soltanto i miliardari

di Alessandro Robecchi

Giusto perché non è ancora finito il tempo dei bilanci sul 2017, annus horribilis, ecco un dato che può generare lo sfavillante ottimismo di cui ci dicono ci sia gran bisogno. Su con la vita! I 500 uomini più ricchi del pianeta nel 2017 si sono messi in tasca giusti giusti mille miliardi di dollari, con un incremento del 23 per cento rispetto all’anno prima e insomma, non facciamola lunga: si certifica, nell’anno dei Signori 2017, che per diventare ricchi la cosa migliore è essere già molto ricchi.
La forbice della diseguaglianza non solo non si chiude, ma si apre a dismisura, in un’annata d’oro per i miliardari. Il primo della lista, Jeff Bezos, il capo di Amazon, ha incrementato la sua fortuna del 34 e passa per cento, ora è vicino ai 100 miliardi di dollari (99,6, per la precisione, cioè per arrivare a 100 gli mancano solo 400 milioni di dollari, suggerisco di aprire una sottoscrizione). Lo inseguono Bill Gates e Warren Buffet, staccati di una manciata di miliardi (91 e 85). Il primo europeo è in sesta posizione, ed è quel Bernard Arnault, francese, che vende lusso a tutti, cioè di sicuro ai suoi 500 colleghi della classifica degli uomini più ricchi del mondo. Più ricchi che nel 2016, anno in cui erano diventati più ricchi che nel 2015, anno in cui… Potete tornare indietro un bel po': nei dieci anni della crisi è gente che non si è mai fatta mancare il segno più.
Ma sì, ma sì, sono classifiche che lasciano il tempo che trovano. L’indignazione generica del momento e poi basta.
Eppure – lo dico, male, un po’ rozzamente, perdonate – queste classifiche potrebbero mettere qualche idea in testa. Per esempio che lì dentro potrebbero annidarsi i famosi soldi che non ci sono mai. Ritornello costante di ogni governo più o meno o para-liberale (non solo italiano) quando si parla di servizi e diritti è “sì, sarebbe giusto, ma non ci sono i soldi”. Ora con tutti i soldi che ti fanno ciao ciao con la manina dalle classifiche (mille miliardi di dollari in più in un anno), direi che i soldi ci sono, invece, e pure tanti, e si sa anche chi li ha in tasca.
E’ noto il ritornello liberista, che sono in realtà due. Il liberista classico dirà che ci pensa il mercato e che se uno ha cento miliardi di dollari in tasca e un suo dipendente fa fatica a mettere insieme il pranzo con la cena, pazienza, che ci vuoi fare, è il mercato. Poi c’è il liberista moderno, smart e di sinistra, quello che dice uh, che bello i ricchi diventano più ricchi, e così anche chi lavora per loro sarà più felice. E’ un classico da Tony Blair in poi: la convinzione che se aiuti i padroni automaticamente aiuti anche i lavoratori. Una teoria interessante, che però cade un po’ a pera appena si guardano i numeri, perché i famosi padroni guadagnano mille miliardi in un anno, e i famosi lavoratori – pardon – una cippa di cazzo. Peggio: si sentono ripetere ogni giorno che i tempi sono cambiati e che devono cedere terreno e diritti. E quando la grande politica, i grandi leader mondiali (e anche i piccoli di casa nostra), parlano di diseguaglianze e di come combatterle, tendono a parlarne con Jeff Bezos e Bill Gates più che con quelli che spostano pacchi e scrivono software.
Gli anni della crisi, che hanno messo in ginocchio il ceto medio e proletarizzato tutti gli altri, in molti paesi e più che altrove in Italia, sono stati anni benedetti soltanto per i ricchi, coronati dal boom del 2017.
Naturalmente né la storia né la geopolitica, né l’economia si fanno con l’aritmetica, ma non è difficile fare due più due e capire che i soldi che mancano qui (al lavoro) sono finiti là (al profitto e al capitale), in misura eccessiva rispetto a qualsiasi decenza. Farsi rendere un po’ di quei soldi – e non soltanto in metafora – dovrebbe essere al primo punto di ogni programma che osasse chiamarsi “di sinistra”.

Il blog di Alessandro Robecchi
view post Posted: 27/12/2017, 18:17 Piovono rane - The others

Il conflitto d'interessi finito in farsa

di Alessandro Gilioli

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Non so se è vero che «tutto si presenta due volte, prima come tragedia e poi come farsa». Ma ieri veniva naturale pensarlo guardando Silvio Berlusconi nella videodiretta di Radio 105, emittente di sua proprietà.

L'ex premier, si sa, ha deciso che è tornato in ottima forma e che condurrà una campagna elettorale delle sue: pancia a terra, attivismo sfrenato, iper presenzialismo. Allo scopo, da qualche settimana sta occupando tutti i suoi media, perché la campagna elettorale formalmente non è ancora iniziata quindi non siamo in regime di "par condicio".

È la stessa cosa che B. ha sempre fatto, quindi nessuno stupore. Nel 1994 - checché ne dicano gli ipocriti - Forza Italia non sarebbe mai passata da zero al 30 per cento in pochi mesi senza una campagna forsennata e martellante dei suoi media, da Vianello a Mengacci, da Funari a Mike Bongiorno. È il caro vecchio conflitto d'interessi: usare media privati per alterare la competizione elettorale. Una cosa mai davvero regolamentata in Italia - nemmeno dal centrosinistra - e appena smussata dalla "par condicio" del 2000 (e per questo dio benedica Scalfaro, altro che balle).

La differenza tra il passato e presente, tuttavia, è andata favolosamente in scena ieri sul Web, appunto, nella diretta di Radio 105, che in un giorno medio ha 3-4 milioni di ascoltatori ed è di proprietà Mediaset.

Silvio Berlusconi è arrivato e, dopo aver detto ai due conduttori «siamo a casa vostra, gli argomenti sceglieteli voi», ha risposto a domande già concordate, leggendo da un foglio, ignaro di essere anche ripreso in video, nella diretta Facebook.

Il risultato è stato esilarante. Perché ha esposto il conflitto di interessi nella sua versione attuale, 2017-18. Cioè patetica e farsesca. Con i due dipendenti - emuli tardivi di Emilio Fede - tanto servili quanto imbarazzati perché consci di quanto stava accadendo, mentre il loro anziano editore leggeva faticosamente, chino sui fogli, certo di non essere visto da nessuno, ignaro di come tutto lo spettacolo disvelasse finalmente l'imbroglio, l'artificiosità di una vita, il rapporto servo-padrone finalizzato a ingannare gli elettori.

Un quarto di secolo di conflitto d'interessi finisce così, nel ridicolo.

Forse Berlusconi annasperà ancora qualche anno attorno ai palazzi della politica, soprattutto grazie al suicidio in corso del Pd. Ma una tragica e ultraventennale ferita della democrazia - il conflitto d'interessi - nel frattempo è diventata una grottesca farsa.

Il blog di Alessandro Gilioli

view post Posted: 1/12/2017, 17:11 Patrizia Todisco ti voglio bene! - Politica

Emiliano, Calenda, Melucci,

rissa sul piano ambientale dell’Ilva di Taranto


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E’ rissa sul piano ambientale dell’Ilva. Il Governo spara a zero sul Comune di Taranto e sulla Regione Puglia per la decisione di impugnare il dpcm del 29 settembre scorso. E’ lo stesso governatore a dare la notizia. “Il Decreto è illegittimo – afferma Michele Emiliano – concede di fatto una ulteriore inaccettabile proroga al termine di realizzazione degli interventi ambientali di cui alle prescrizioni Aia già da tempo scadute e sinora rimaste inottemperate. Il Decreto consente all’Ilva di proseguire sino al 23/8/2023 l’attività siderurgica nelle stesse condizioni illegittime e non più ambientalmente sostenibili addirittura precedenti alla prima Aia nonchè alle Bat (best available techniques) per la produzione di ferro e acciaio pubblicate nel 2012”.

Emiliano precisa inoltre che “il Governo peraltro ha totalmente ignorato le osservazioni della Regione Puglia formalmente presentate nell’ambito del procedimento concluso con il Dpcm impugnato, senza alcuna giustificazione, agendo in violazione dei più elementari principi di pubblicità, trasparenza e imparzialità e in spregio al dovere di leale collaborazione istituzionale che dovrebbe ispirare il comportamento della Pubblica Amministrazione”. Furiosa la reazione del ministro dello Sviluppo economico. “Mentre Governo, parti sociali e la maggior parte degli enti locali coinvolti – dice Calenda – stanno costruttivamente collaborando per assicurare all’Ilva, ai lavoratori e a Taranto investimenti industriali per 1,2 mld, ambientali per 2,3 miliardi e la tutela di circa 20.000 posti di lavoro tra diretti e indiretti, il Comune di Taranto e la Regione Puglia decidono di impugnare il Dpcm ambientale mettendo a rischio l’intera operazione di cessione e gli interventi a favore dell’ambiente. Nonostante la presentazione dettagliata di piano ambientale e industriale fatta al tavolo istituzionale del Ministero, peraltro disertato all’ultimo minuto dal Sindaco di Taranto, l’impegno preso a convocare un tavolo dedicato a Taranto e l’anticipo dei lavori di copertura dei parchi confermato oggi dai commissari che segue più di 500 milioni di euro di interventi ambientali già compiuti dall’Amministrazione Straordinaria, continua la sistematica e irresponsabile opera di ostruzionismo delle istituzioni locali pugliesi”.

“Ricordo – aggiunge il ministro – che il Dpcm verso cui Emiliano e Melucci hanno fatto ricorso prevede tra l’altro una produzione contingentata a 6 milioni di tonnellate per limitare le emissioni, rispetto alle precedenti 8, fino al completamento di tutti gli interventi ambientali. Si tratta credo del primo caso al mondo in cui un investimento di riqualificazione industriale e ambientale di queste dimensioni viene osteggiato dai rappresentati del territorio che più ne beneficerà. Spero vivamente che Regione e Comune abbiano ben ponderato le possibili conseguenze delle loro iniziative e le responsabilità connesse”

La risposta di Rinaldo Melucci arriva via Twitter. “Caro ministro – scrive il primo cittadino di Taranto – io rispondo alla mia coscienza e ai tarantini, non al portafogli di qualche lobbista. Se l’acquisizione non rispetta l’ambiente e le nostre priorità è un problema di chi la ha permessa. Taranto non si fa violentare più, i ricatti non ci spaventano.

Critiche alla decisione di Emiliano arrivano anche dalla Fim Cisl. “La scelta del Governatore della Puglia, Michele Emiliano di ricorrere al Tar è da irresponsabili”, dice il segretario generale Marco Bentivogli, secondo il quale “affidare al Tar il proprio disappunto per essere in un tavolo parallelo a quello col sindacato è un atteggiamento infantile è grave. Non si può trascinare una vicenda in cui è in ballo il risanamento ambientale e la difesa di migliaia di posti di lavoro a capricci per la propria visibilità politica. La Regione Puglia ha tante possibilità e responsabilità da esercitare per dare il proprio contributo positivo. Oggi ha deciso di buttare la palla in tribuna a danno di ambiente, occupazione e sviluppo. Prenda esempio dalle altre quattro regioni coinvolte che hanno ben accolto la loro partecipazione al tavolo istituzionale”.

Sulla stessa lunghezza d’onda il segretario generale della Fim Cisl Taranto Brindisi, Valerio D’Alò, che afferma: “Questo atteggiamento di Emiliano non fa altro che allungare i tempi per l’ambientalizzazione del territorio. Adeguare la fabbrica in fretta dovrebbe essere un obbiettivo comune. Ricorrere al Tar significa rinviare l’attuazione delle prescrizioni Aia, ivi compresa la copertura dei parchi minerali. Decisione, quella del Presidente della Regione Puglia che nello stesso tempo penalizza oltremodo tutti quei lavoratori, dei tubifici e non solo, a casa gravati dal peso degli ammortizzatori sociali”.

www.laringhiera.net




Melucci: "Le priorità sono cambiate;

prima la salute del lavoro"


Sono queste le parole pronunciate questa mattina in Consiglio comunale dal primo cittadino di Taranto, Rinaldo Melucci, e deflagrate inaspettatamente tra gli sguardi attoniti dei presenti. In sostanza, per il sindaco, è inutile ripetere il solito mantra per cui lavoro e ambiente viaggiano di pari passo ed hanno pari importanza. La salute viene prima di tutto.

L'impugnazione del decreto governativo che avrebbe permesso ad Arcelor Mittal di subentrare allo Stato quale gestore dello stabilimento Ilva sta creando non pochi problemi a Melucci. Che se da un lato sembra avere conquistato il favore del mondo ambientalista, dall'altra ha scatenato i timori degli operai che sentono di poter diventare vittime dello scontro armato tra Governo ed enti locali.

Ma questo non deve aver turbato il sindaco di Taranto che anche oggi ha ribadito di essere convinto delle proprie azioni. Sentiamo alcune dichiarazioni raccolte a margine della seduta odierna del question time.



cronachetarantine.it

view post Posted: 1/12/2017, 16:48 Spigolature laiche - Sono incredulo e me ne vanto

UAAR - Una scuola non è un santuario,

ma la ministra Fedeli non lo sa: si dimetta


di Raffaele Carcano

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C’era una volta una scuola che, anziché una scuola, sembrava un santuario. Statue di Cristo e della Madonna, foto dei papi, preghiere prima delle lezioni e prima di mangiare. Non era una scuola privata cattolica: era una scuola pubblica di Palermo.

Quella scuola non c’è più. Perché una volta che la notizia è diventata di pubblico dominio il preside, entrato in carica a settembre, ha capito che il “si è sempre fatto così” non poteva continuare a essere seguito da un “e così sarà sempre, nei secoli dei secoli”. Ha fatto togliere le statue, ha fatto togliere le foto, ha disposto che le preghiere non avessero più luogo. Ha fatto quello che dovrebbe fare ogni preside di ogni scuola pubblica di uno stato laico. In una situazione del genere, dovrebbe meritarsi un plauso dalle istituzioni scolastiche.

Invece no.

La ministra Valeria Fedeli, anziché complimentarsi con il preside Niccolò La Rocca, l’ha pubblicamente rimproverato. Tanto per far capire a tutti da che parte sta, l’ha rimproverato durante il Festival della dottrina sociale della Chiesa, dove ha avuto modo di conversare amabilmente con il presidente dei vescovi italiani, mons. Gualtiero Bassetti. E l’ha rimproverato nonostante il preside abbia applicato la legge. Che evidentemente la ministra non conosce, perché ha fatto riferimento a una circolare riguardante i crocifissi. Che (purtroppo) sono invece rimasti al loro posto, quello che occupano da quando il regime fascista li impose. Circostanza che alla ministra - sedicente democratica - evidentemente sfugge.

Non deve quindi sorprendere che, nel criticare il preside, Valeria Fedeli, nomen omen, si sia ritrovata in compagnia del sottosegretario ciellino Daniele Toccafondi, della leader postfascista Giorgia Meloni e dei fascisti “senza se e senza ma” di Forza Nuova. Nel silenzio assordante dei sindacati di settore. Perché il problema fondamentale è che, nella classe dirigente italiana, manca la capacità di comprendere che, in una scuola pubblica, non ci si va per pregare, ma per imparare. Per quelli che vogliono pregare ci sono già la chiesa e l’oratorio.

Tuttavia, le parrocchie sono ormai in crisi profonda, e i parroci sono anziani e insufficienti. L’effetto del papa alla mano è durato ben poco, se mai c’è stato. Non c’è stato nemmeno da un punto di vista laico, se si guarda alla prassi, con buona pace dei tanti apologeti a sinistra: vedi l’imbarazzante endorsement del Manifesto. Nulla è cambiato da Ratzinger a Bergoglio: la Chiesa continua come prima a chiedere e a ottenere. Ma che la Chiesa faccia il suo mestiere è comprensibile.

Sono invece i ministri a non farlo. In fondo Fedeli ha tanti poco nobili predecessori. Da Stefania Giannini, prefatrice di un libro che proponeva di tagliare del 40% i fondi stanziati per la scuola pubblica, a Mariastella Gelmini, indimenticabile interprete di “Tu scendi dalle stelle” per protestare contro un preside “anti-Natale” (sic). Da Giuseppe Fioroni, tornato agli onori della cronaca proprio questo weekend per non aver ottenuto la benedizione di una sede Pd, a Letizia Moratti, che al ministero si circondò di ciellini, inserì in ruolo gli insegnanti di religione, e cercò di eliminare l’evoluzionismo dai programmi scolastici. Prima ancora, i tanti ministri, rigorosamente democristiani, che per oltre tre decenni hanno occupato il ministero dell’istruzione pubblica. Oggi, ufficialmente, nemmeno più tale.

Basta scorrere l’elenco dei ministri per capire, con un semplice colpo d’occhio, perché la scuola pubblica è messa tanto male. C’è quasi da sorprendersi che non sia ancora definitivamente crollata: se le scuole private cattoliche non ce la fanno, nonostante tutto il sostegno che ricevono, devono essere scuole veramente cattive, se non pessime. Forse è colpa delle nemesi di Pio IX, che pensava che l’istruzione obbligatoria fosse un flagello.

Le buone scuole sono invece quelle dove ogni studente ha diritti identici al suo vicino di banco, dove le classi non si separano perché c’è l’ora di religione, dove alle pareti non ci sono simboli religiosi di parte. Buone scuole così non esistono, in Italia. E non esisteranno a lungo, con politici e ministri di questo tipo. Farsi da parte sarebbe il minimo. Ma la colpa è anche nostra: in fondo, basterebbe non votarli. Le elezioni si avvicinano. Ricordiamoglielo.

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view post Posted: 19/11/2017, 16:54 Il Papa è il primo pedofilo - Sono incredulo e me ne vanto

Il Vaticano sul Collegio dei chierichetti:

«Ci furono rapporti omosessuali»


di Fabrizio Caccia

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Un ragazzo italiano, ormai maggiorenne, ha già annunciato via sms la sua volontà di presentare formale denuncia per gli abusi sessuali subìti tra il 2013 e il 2014 nel Preseminario «San Pio X», il collegio di palazzo San Carlo, dentro le mura leonine, dove alloggiano i cosiddetti «chierichetti» del Papa.


Un altro ex alunno, a distanza di anni, non riesce ancora a superare lo choc, si sente sporco e «continua a farsi fino a 15 docce al giorno», racconta il giornalista Gianluigi Nuzzi che nel suo ultimo libro, Peccato originale, ha sollevato per primo il caso. Poi c’è stata l’intervista de Le Iene, il programma di Italia 1, una decina di giorni fa, a un’altra presunta vittima di abusi compiuti in quegli anni dentro il preseminario. Abusi a opera di un ragazzo poco più grande di lui che è appena stato ordinato sacerdote a Como. Ma tra i presunti «orchi», secondo Nuzzi, ci sarebbe pure un monsignore. Così, ecco che il Vaticano adesso ha avviato un’indagine interna, da cui sono emersi «nuovi elementi»: lo ha ammesso ieri la Santa Sede.

I primi risultati di questa nuova inchiesta ribalterebbero le conclusioni di precedenti accertamenti svolti. Gli inquirenti della Santa Sede, dopo aver esaminato un centinaio di casi, avrebbero verificato la consumazione di rapporti omosessuali, avvenuti in quegli anni all’interno del Preseminario, «che avrebbero coinvolto alcuni coetanei tra loro». Non si parla, ancora, ufficialmente di abusi né di pedofilia. Ma il Papa ha già chiesto di poter vedere il dossier quando l’indagine sarà terminata.

«È un primo passo», commenta Nuzzi, che venerdì sera ha portato ospite nella sua trasmissione Quarto grado su Rete 4 il supertestimone di quest’inchiesta, il giovane polacco Kamil Tadeusz Jarzembowski, oggi maggiorenne, che ha già messo per iscritto le sue accuse in una lettera consegnata a Bergoglio.


Il Preseminario è una scuola media di prestigio, un collegio per giovanissimi avviati sulla strada ecclesiastica. E Kamil, ex allievo anche lui, oggi studente d’arte all’università, ha raccontato a Francesco di essere «stato testimone nella mia stanza di atti sessuali che G. esigeva da P., atti che si compivano nonostante la mia presenza e che si svolgevano sempre di sera, intorno alle 23». I casi di abuso, secondo il ragazzo polacco, sarebbero almeno tre. Ma lo stesso Nuzzi sta lavorando su altre due testimonianze. «Per ora — conclude il giornalista di Rete 4 — è stata aperta un’inchiesta canonica. Ma l’auspicio è che se ne apra un’altra penale per far luce, non con un semplice fiammifero ma con un grosso faro, su una vicenda tristissima e grave».

roma.corriere.it

view post Posted: 5/11/2017, 09:48 Spigolature laiche - Sono incredulo e me ne vanto

Gli atei sono più intelligenti, lo rivela uno studio


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Gli atei sono più intelligenti delle persone religiose, stando a dozzine di studi. Miron Zuckerman, Jordan Silberman e Judith A. Hall, dell’Università di Rochester, hanno condotto una meta-analisi – analisi statistica che combina i risultati di varie ricerche scientifiche – su ben 63 studi. La ricerca ha evidenziato una significativa correlazione negativa tra intelligenza e religiosità. La correlazione era più forte tra gli studenti universitari e più debole in adolescenti e i bambini. La religiosità è definita come “il grado di coinvolgimento in alcuni o tutti gli aspetti della religione”. Questo include credenze in agenti soprannaturali e “dedizione completa a questi agenti, anche offrendo sacrifici”. Un altro aspetto considerato è la partecipazione a rituali, come andare in chiesa, o la manifestazione di “minori ansie esistenziali, grazie alla credenza in agenti soprannaturali”, come ad esempio essere meno spaventati dalla morte in quanto si crede di andare in paradiso.

Non è ancora chiaro perché le persone non religiose siano più intelligenti, ma la differenza varia a seconda dell’età. All’università il divario è il più forte. Questo potrebbe derivare dal fatto che studenti più intelligenti sono più inclini ad abbracciare l’ateismo in segno di anticonformismo. L’università espone le persone a nuove idee e influenze e gli studenti tendono a perdere le loro convinzioni o a diventare più religiosi in questo periodo, stando allo studio. Questi cambiamenti sono spesso il risultato di “un’auto-esplorazione di sè, che caratterizza l’emergere dell’età adulta e causa spesso interrogativi”. Lo studio aggiunge inoltre che “usare un pensiero analitico (in contrapposizione a quello intuitivo), permette agli studenti universitari più intelligenti di respingere la religione”.

Mentre più tardi, le persone più intelligenti tendono a sposarsi, e a rimanerlo, in linea con le funzioni che la religione fornisce, queste persone sono anche più inclini ad avere lavori di alto livello e a spendere molto tempo a scuola, il che li porta ad avere molta autostima e “incoraggia il controllo di opinioni personali”. Comunque, andando avanti con l’età, ci si rende conto della propria mortalità e la fede può aiutare a gestire il terrore della morte incombente. Secondo lo studio, “la relazione negativa tra intelligenza e religiosità potrebbe subire un declino alla fine della vita, ma le prove indicano altrimenti. Il campione di persone più intelligenti infatti, hanno mantenuto i bassissimi livelli di religiosità anche negli anni d’oro, tra i 75 e i 91 anni.

www.direttanews.it




Gli atei sono più intelligenti?

Secondo gli autori di un articolo pubblicato su Evolutionary Psychological Science,
la religiosità sarebbe un istinto che si contrappone all’intelligenza


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Religiosità e intelligenza: esiste un legame? Secondo diversi studi, sì. In particolare le persone più religiose sarebbero anche le meno intelligenti, cosa che per i sostenitori di questa ipotesi spiegherebbe perché così tanti grandi pensatori, fin dall’antichità, si siano dichiarati atei. Assumendo per vere le conclusioni di queste ricerche, resterebbe però da chiarire la natura della relazione tra religiosità e intelligenza. È da qui che parte lo studio – recentemente pubblicato sulla rivista Evolutionary Psychological Science – di Edward Dutton, dell’Ulster Institute for Social Research (Uk), e Dimitri Van der Linden, della Rotterdam University (Paesi Bassi). I ricercatori, dopo aver analizzato tre diversi modelli teorici della psicologia evolutiva, arrivano alla conclusione per cui la religiosità sarebbe ascrivibile a una sorta di istinto mentre l’intelligenza sarebbe la capacità di elevarsi al di sopra di tale istinto.

Nell’articolo in questione i due ricercatori espongono la propria teoria, il cosiddetto Intelligence-Mismatch Association Model, per spiegare perché sia nella storia sia nei risultati di più recenti indagini (condotte in diversi Paesi e tra vari gruppi culturali) il tratto dell’intelligenza, cioè un elevato quoziente intellettivo (Qi), si associ meno frequentemente alle persone religiose.

Il modello, in particolare, si basa sulla teoria dei Savanna-Qi Principles dello psicologo dell’evoluzione Satoshi Kanazawa. Secondo Kanazawa i comportamenti umani sono ancora oggi legati all’ambiente che è stato scenario dell’evoluzione dei nostri antenati.

Facciamo un esempio molto semplice: la nostra attrazione nei confronti dei cibi che contengono molto zucchero e molti grassi è – secondo questa visione – un retaggio dell’antichità, un periodo in cui la sopravvivenza, la longevità e la buona salute di un individuo erano legate alla disponibilità di cibo. Oggi però, visto che viviamo in un contesto completamente diverso, questa eredità è controproducente e aumenta il rischio di incorrere in disturbi come l’obesità e le malattie cardiache.

Rifacendosi a questo principio, Dutton e Van der Linden sostengono che la religiosità dovrebbe essere considerata come un tratto istintivo del comportamento umano, che si contrappone all’intelligenza che è invece strumento per superare i propri istinti, evoluta per risolvere problemi e dare all’essere umano maggiori chance di sopravvivenza. Se la religiosità è un istinto, precisano gli autori, “allora l’intelligenza può essere intesa come il superamento dell’istinto, che porta a essere intellettualmente curiosi e aperti a possibilità non istintive”.

Nel loro modello i due ricercatori includono anche la relazione tra istinto e stress: “Se la religiosità è davvero un istinto, allora diventerà più forte nei momenti di stress, quando le persone sono più inclini ad agire istintivamente. Esistono delle evidenze a sostegno di questo modello”, spiega Dutton. “Significa anche, però, che l’intelligenza permette di fermarci e ragionare sulla situazione e sulle possibili conseguenze delle nostre azioni”.

Su queste basi i ricercatori sostengono che le persone non istintive – quindi meno o per nulla religiose – abbiano migliori capacità di problem solving, che siano, in altre parole, più intelligenti.

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