Alla ricerca del forum perduto

Hannah Arendt e la banalità del male

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view post Posted on 10/5/2013, 19:02
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Hannah Arendt. Il male nella storia

di Mario Vetrone

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Nel 1961, Hannah Arendt, fu inviata dal giornale The New Yorker a Gerusalemme per seguire il processo ad Adolf Eichmann, ritenuto uno dei massimi responsabili della catena di morte che aveva portato tra la fine degli anni trenta e il 1945 milioni di ebrei a perire nei campi attrezzati per lo sterminio, e non solo.
Nel 1963 venne pubblicata una prima edizione del testo intitolato Eichmann in Jerusalem, e che tutti noi conosciamo con il più "filosofico" titolo delle edizioni Feltrinelli, La banalità del male. Comunque sia, si tratta di una pietra miliare, forse uno spartiacque, nel campo delle divulgazione storica circa il destino di milioni di persone di origine ebraica (senza mai dimenticare, certo, l'ampia quota di appartenenti ad altre categorie umane ritenute inferiori).
Rileggere questo testo, aldilà delle occasioni, rappresenta un momento utile a dissipare in noi e soprattutto nelle nuove generazioni alcuni dubbi e le perplessità, visto l'abbondare di "revisioni" messe in campo da quelli che non si dovrebbe esitare a definire dei ciarlatani. Inoltre queste pagine fanno luce su un meccanismo truce e nel suo insieme "banale"; tale è la ricorrente giustificazione di personaggi come Eichmann, ligio esecutore degli ordini di Heinrich Himmler e dell'incarnazione divina della nazione, il Führer. Si è visto invece il pallido incarnato della morte trionfare e poveri burocratici escamotage linguistici per attuare una procedura di sterminio di un popolo. Un popolo nel popolo.


Eichmann viene acciuffato in un sobborgo di Buenos Aires l'11 maggio del 1960 da agenti del servizio segreto israeliano, portato a Gerusalemme, quivi processato e condannato alla pena capitale (eseguita il 31 maggio 1962); ogni cosa avviene secondo una direzione puntuale, quella del capo dello Stato d'Israele, Ben Gurion.
Secondo la Arendt, pur permanendo tanti i punti oscuri nella vicenda e il sostanziale giudizio di disumanità e correità, Eichmann si presenta sulla ribalta mediatica del dopoguerra come una figura minore, dimessa, difesa tra l'altro da una specie di azzeccagarbugli.
Le carte del processo, le prove, le memorie, gli studi effettuati da illustri accademici sull'apparato nazista (l'organizzazione delle famigerate Einsatzgruppen, e più in generale la struttura amministrativa delle SS), costituiscono il materiale sul quale la Arendt costruisce la sua fondamentale testimonianza. Di suo, attraverso una prosa vivace e quasi giornalistica, ci mette la formulazione di valutazioni e giudizi, che sono l'aspetto più coinvolgente di questo scritto.

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La Arendt non fa sconti nella considerazione dell'operato umano, scellerato e globale. Un cataclisma universale in cui ogni minuzia sul piano dei fatti può equivalere a diecine di migliaia di morti ammazzati nei modi più vari. Chiama i popoli coinvolti e non solo i dirigenti alle loro responsabilità; tutti, uno per uno, al cospetto di un tribunale ideale.
Chiarisce fatti sull'attività degli sterminatori dei paesi che assecondarono la volontà tedesca di rendere l'Europa – e forse il mondo – judenrein. La Francia di Vichy, le dittature romena e ungherese, in particolare, mostrarono un animoso antisemitismo; ma si apre anche uno squarcio sul collaborazionismo ebraico, sulle ambiguità dei sedicenti movimenti sionisti e delle chiese. Ma soprattutto chiama in causa il popolo tedesco e non tace le sue responsabilità di fronte una colpa così grande.

La banalità del male, ma anche l'inesauribile orrore. In occasione della Giornata della Memoria (27 gennaio del '45, data dell'abbattimento dei cancelli di Auschwitz) per le vittime dell'olocausto, le ombre s'addensano ancora offuscando il nostro sguardo sul mondo e sull'uomo. Anche le più tiepide e ponderate rivalutazioni storiche della feroce contrapposizione tra due schieramenti durante la Seconda guerra mondiale, dovrebbero sempre tener presente scritti come questo, su una tragedia che ha ferito profondamente, forse in un modo che non ha precedenti, i valori positivi che pure erano parte del sentire comune, in Europa e non solo.
La parabola del nazismo dimostra come populismo e nazionalismo siano due agenti di quel veleno che ha intossicato il secolo scorso. Un male che è sempre in agguato.
Non c'è nulla da riscrivere, dunque, ma tutto da tramandare.


Nota sull'Autrice:
Hannah Arendt, nata a Linden in Germania nel 1914 e morta a New York nel 1975, è stata filosofa e storica, cresciuta alla scuola di Heidegger e Jaspers; docente universitaria negli Stati Uniti, ha scritto numerosi saggi che hanno come oggetto di indagine lo sviluppo dei grandi totalitarismi e il rapporto tra politica e vita, individuo e massa.

lnx.whipart.it




Ecco le parole finali da brivido del bel libro della Arendt:

Sia che scrivesse le sue memorie in Argentina, sia che le scrivesse a Gerusalemme, sia che parlasse al giudice istruttore, sia che parlasse alla Corte, diceva sempre le stesse cose, adoperando sempre gli stessi termini. Quanto più lo si ascoltava, tanto più era evidente che la sua incapacità di esprimersi era strettamente legata a un’incapacità di pensare, cioè di pensare dal punto di vista di qualcun altro. Comunicare con lui era impossibile, non perché mentiva, ma perché le parole e la presenza degli altri, e quindi la realtà in quanto tale, non lo toccavano.

“… anche supponendo che soltanto la sfortuna ti abbia trasformato in un volontario strumento dello sterminio, resta sempre il fatto che tu hai eseguito e perciò attivamente appoggiato una politica di sterminio. … E come tu hai appoggiato e messo in pratica una politica il cui senso era di non coabitare su questo pianeta con il popolo ebraico e con varie altre razze (quasi che tu e i tuoi superiori aveste il diritto di stabilire chi deve e chi non deve abitare la terra), noi riteniamo che nessuno, cioè nessun essere umano desideri coabitare con te. Per questo, e solo per questo, tu devi essere impiccato.”
 
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