Alla ricerca del forum perduto

Patrizia Todisco ti voglio bene!

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view post Posted on 16/2/2021, 17:23
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Ilva, dieci anni dopo Taranto è senza speranze

Poche reazioni e sconforto dopo che il Tar ha deciso la chiusura dell’area a caldo

di Giuliano Foschini


TARANTO - "Riva boia”. “Tumori e disoccupazione made in Ilva”. “Salute vince lavoro”. “Diossina ti odio”. Parlano i muri di Taranto. Ma anche loro hanno la voce rauca del tempo e della malattia: sono rosa come la polvere dei minerali che volano (volavano) dalle montagne del siderurgico.

Scrostati da dieci anni di battaglie, indeboliti dal tempo, anche i murales sembrano aver preso la forma di quello che sta succedendo a una città che sembra non aver più voglia di tifare, e forse nemmeno di lottare: c’erano gli operai che campavano grazie all’acciaio e quelli che morivano per colpa dell’acciaio, sembrava che la dicotomia tra due diritti, la salute e il lavoro, fosse destinata a rompere tutto, e non a caso qui era nato il primo re dei populisti, Mario Cito.

C’era la frase che sentivi ovunque, a Roma e a Bari, “Taranto sta per scoppiare”. C’era rabbia e paura. E invece ora tutto questo non c’è più. Che c’è ora? «Rassegnazione, disincanto» dice Giuseppe Romano, operaio e delegato della Fiom, una delle menti pensanti della fabbrica. «Sono dieci anni che sembra dover cambiare tutto. E invece siamo sempre qui: a combattere con la cassa integrazione, con i nostri parenti e amici che si ammalano, con il padrone di turno dell’azienda che ci offre soluzioni a brevissimo termine. Ora come dieci anni fa».

«Oggi – spiega un uomo della polizia giudiziaria che sta contribuendo a scrivere la storia di questa città - mi ha chiamato un mio amico, che è un operaio dell’Ilva: “Che altro è successo?” Mi ha chiesto. Gli ho detto, “eh, Enzo, forse succede qualcosa questa volta”. Mi ha risposto: “Ancora, qui non succede mai un ca..o”. Silenzio. “Oggi per la prima volta ho pensato che, forse, tiene ragione».
Era l’estate del 2012 quando sembrava che tutto dovesse cambiare. I Riva furono arrestati, gli impianti messi sotto sequestro. Per la prima volta un giudice aveva messo nero su bianco che Taranto era nera - nel senso del cielo, inquinato - e lo era per colpa delle emissioni del siderurgico. Nero era anche il presente e il futuro dei suoi cittadini: si ammalavano più del resto dei pugliesi, e sarebbe accaduto ancora per chissà quanto. “Danno sanitario” si chiama. Sembrava dovesse cambiare tutto.

E in effetti tutto è cambiato: via i Riva e dentro lo Stato. Via lo Stato e dentro Arcelor Mittal, anzi no, ora di nuovo dentro lo Stato. Si sono alternati alcuni dei più importanti “capitani coraggiosi” italiani, il prefetto Bruno Ferrante, manager come Enrico Bondi, Enrico Laghi, Piero Gnudi, ora Lucia Morselli. Sono passati governi come automobili su un’autostrada – Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, Conte I e Conte II, ora Draghi. I Presidenti del consiglio (Conte) hanno partecipato ai consigli di fabbrica o sono scappati (Renzi) davanti ai contestatori.

È stato detto: «Se vinciamo, chiuderemo il mostro» (Di Battista) e «Abbiamo vinto, ma non possiamo farlo» (Di Maio) . Hanno arrestato un procuratore della Repubblica, Carlo Maria Capristo, ora in pensione e sotto processo; mentre quello precedente, Franco Sebastio, dopo la pensione si è invece candidato alle elezioni, senza fortuna.
Un processo, anzi IL PROCESSO, quello sul disastro ambientale, è cominciato ma non si è arrivati ancora alle richieste di condanna. In primo grado. Nove anni dopo. Per concludere, è bene annotare che tutto questo è costato 23 miliardi di Pil secondo un calcolo del “Sole 24 ore”, l’1,35 per cento della ricchezza nazionale; si è speso quasi un miliardo di euro, tra opere di ambientalizzazione (come la mastodontica copertura dei parchi minerari), ammortizzatori sociali, compensi agli amministratori. E altri 400 di soldi pubblici sono pronti a essere investiti perché Invitalia sta per entrare nel capitale e affiancare Arcelor Mittal: il provvedimento è alla firma del Mef, ma ora chissà cosa accadrà.

Sì, perché in questi nove anni è successo tutto questo. Ma quando si è partiti c’era una fabbrica che inquinava e ventimila operai che rischiavano il posto di lavoro. E oggi c’è sempre una fabbrica che inquina e quindicimila operai (gli altri nel frattempo sono in pensione, hanno un altro lavoro, molti se ne sono andati, e basta) che rischiano il posto di lavoro. «Il futuro vorremmo scriverlo in maniera diversa» dice però il sindaco, Rinaldo Melucci, con una buona dose di ottimismo.

Melucci ha firmato il 27 febbraio, dopo la segnalazione di puzza immonda da centinaia di cittadini – anche in questo caso nello scetticismo e il silenzio generale – un’ordinanza che chiudeva l’area a caldo dell’Ilva. Tempo fa sarebbe venuto giù tutto.

E invece quasi non se n’è accorto nessuno. Arcelor l’ha impugnata al Tar sostenendo, con l’appoggio di Ministero e Ispra, che odori ed emissioni non erano loro riconducibili. E tutti erano convinti che sarebbe finita nell’ennesima palude. E invece no: il tribunale amministrativo ha dato ragione al Comune ma soprattutto piazzato schiaffi a tutti.

Ad Arcelor, al vecchio governo, agli organi di controllo (Ispra), dando 60 giorni di tempo per spegnere tutto. L’azienda ha annunciato ricorso al Consiglio di Stato. Spiegando che «la fermata dell’area a caldo comporterebbe in ogni caso un totale blocco della produzione dello stabilimento, la cui produzione, a norma di legge, è invece assolutamente necessaria a mantenere e salvaguardare l’unico impianto sul territorio nazionale a “ciclo integrato” per la produzione di acciaio».

Tradotto, se spegniamo, chiudiamo. E mandiamo a mare mezza industria italiana. Anche in questo caso, silenzio. Non un ministro, non una manifestazione, qualche voce preoccupata di Confindustria e sindacato, qualche ambientalista incavolato. «Se succede? Succede», dice Marco De Giorgio, fuori dai cancelli, ci sono quattro gradi e molto vento. «Ci daranno la cassa integrazione, magari è meglio di questo limbo».

Il Comune ha pronto un piano di transizione verso i forni elettrici, la Procura si è mossa ufficialmente e potrebbe chiedere la revoca della facoltà d’uso (la cokeria è sotto sequestro), Massimo Bray, l’ex ministro della Cultura, che è venuto in Puglia a fare l’assessore di Michele Emiliano con Taranto nella testa e l’Europa all’orizzonte, ragiona: «Non si può pensare al futuro senza essere convinti di non essere soli. Taranto è una città che ha bisogno di innovazione e di prevenzione, che sono parole che possono sembrare diverse ma in realtà si assomigliano».

Ecco, la maledizione di Taranto è diventata quella di non credere più alle parole. «Ci avete rotto le cozze» è scritto verso il porto. La verità è sempre sui muri.


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view post Posted on 18/2/2021, 09:24
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Ilva Taranto, processo Ambiente svenduto:

chiesti condanna di 25 anni per i fratelli Riva

e 5 anni per l’ex governatore Nichi Vendola


Quasi 400 anni di carcere: è questa la richiesta della Procura tarantina
nei confronti di 35 imputati nel processo Ambiente Svenduto,
ovvero il procedimento sul disastro ambientale e sanitario
generato secondo l’accusa dalle emissioni nocive dell’ex Ilva di Taranto.


di Francesco Casula

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Sono 35 le condanne per un totale di quasi 400 anni di carcere chieste dalla Procura di Taranto al termine della requisitoria nel maxi processo “Ambiente svenduto” sul disastro ambientale e sanitario generato secondo l’accusa dalle emissioni nocive dell’ex Ilva di Taranto. Al nono giorno di requisitoria dinanzi alla Corte d’assise, i sostituti procuratori Mariano Buccoliero, Giovanna Cannarile, Remo Epifani e Raffaele Graziano con il procuratore facente funzione Maurizio Carbone hanno depositato le richieste di condanna e di assoluzione nei confronti dei 47 imputati (44 fisiche e 3 società) finite alla sbarra con accuse gravissime come associazione a delinquere finalizzate al disastro ambientale, omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro, avvelenamento di sostanze alimentari, corruzioni in atti giudiziari, omicidio colposo e altre imputazioni.

Le pene maggiori sono state richieste nei confronti della famiglia Riva, ex proprietari dello stabilimento ionico e ritenuti i capi dell’associazione a delinquere che avrebbe permesso, attraverso dati fasulli e contatti politici compiacenti, di proseguire negli anni la produzione inquinante evitando controlli, sanzioni e leggi che avrebbero potuto compromettere i profitti della società. Per Fabio Riva la procura ha chiesto 28 anni di reclusione e 25 per il fratello Nicola Riva. E poi 28 anni per l’ex direttore dello stabilimento Luigi Capogrosso e per Girolamo Archinà, ex responsabile delle relazioni istituzionali dell’Ilva e ritenuto dalla procura la “longa manus” dei Riva: a lui, secondo quanto emerse dalle indagini era affidato il compito di mantenere i rapporti con la stampa e le autorità locali perché Ilva fosse al riparo dalle accuse degli ambientalisti o, più in generale, da rischi. Carcere per 7 anni chiesto anche per l’avvocato Francesco Perli, il legale amministrativista che per conto dell’Ilva avrebbe “pilotato” secondo la procura le ispezioni del gruppo istruttore ministeriale che nel 2011 concesse alla fabbrica l’autorizzazione integrata ambientale. Richiesta di carcere tra i 2 e i 20 anni per il cosiddetto “governo ombra”, la rete di consulenti e fiduciari dei Riva che restando al di fuori delle strutture ufficiali impartiva le disposizioni per mandare avanti la produzione. Pene tra i 17 e i 20 anni di carcere anche per i dirigenti e i capi area della fabbrica.

Condanne anche nei confronti della politica: chiesti 5 anni di carcere per Nichi Vendola, ex governatore di Puglia accusato di concussione ai danni di Giorgio Assennato, l’ex direttore generale di Arpa Puglia ritenuto troppo severo nei confronti della fabbrica. Una condanna a 4 anni è stata chiesta anche per Gianni Florido e a Michele Conserva, rispettivamente ex presidente della Provincia di Taranto ed ex assessore provinciale all’Ambiente, accusati di aver fatto pressioni, su richiesta di Archinà, nei confronti dei dirigenti della Provincia per concedere alla società l’autorizzazione all’utilizzo delle discariche interne alla fabbrica: un’autorizzazione che, in realtà, arrivò in realtà nel 2013 grazie a uno dei numerosi decreti “Salva Ilva” varati dai diversi Governi che dal 2012 a oggi hanno dovuto confrontarsi con l’eterno nodo “salute lavoro”. Piccole richieste di condanna anche altri politici: tra queste spiccano i nomi di Donato Pentassuglia, attuale assessore all’agricoltura della Puglia accusato di favoreggiamento ad Archinà per aver negato di aver incontrato Archinà mentre questi tirava i fili per “distruggere” Assennato, e il parlamentare Nicola Fratoianni, accusato di favoreggiamento nei confronti di Vendola.

Richiesti di 17 anni di reclusione per Lorenzo Liberti, l’ex consulente della procura è accusato di aver intascato una mazzetta da 10mila euro per ammorbidire una perizia affidata dai pubblici ministeri e scagionare l’Ilva dall’accusa di aver diffuso diossina nei terreni e nei pascoli intorno alla fabbrica. E poi 1 anno di carcere per Giorgio Assennato, ex dg dell’Arpa e divenuto nemico giurato dell’Ilva per le sue campagne di monitoraggio che inchiodavano la fabbrica, era accusato di favoreggiamento nei confronti di Vendola. Dello stesso reato rispondevano anche il direttore scientifico di Arpa Massimo Blonda (8 mesi), l’ex Dirigente del Settore Ecologia della Regione Puglia Antonello Antonicelli, l’allora capo di gabinetto di Vendola Francesco Manna, il direttore dell’area sviluppo economico Davide Pellegrino: per tutti la richiesta è stata di 8 mesi. Sono state 9 infine le richieste di non luogo a procedere per sopraggiunta prescrizione: è il caso di Ippazio Stefano, ex sindaco di Taranto, accusato di omissione in atti d’ufficio per non aver avviato alcuna iniziativa a difesa della salute nonostante la piena consapevolezza dei rischi corsi dalla popolazione tarantina. Prescritte anche le accuse nei confronti dei tecnici ministeriali come Dario Ticali, presidente della commissione Aia, e Luigi Pelaggi ex capo della segreteria tecnica dell’ex ministero Stefania Prestigiacomo: accusati di aver intrattenuto contatti “non istituzionali” con i vertici della società Ilva e di aver passato ai suoi dirigenti informazioni riservate sui lavori della commissione. La procura, infine, ha chiesto la trasmissione degli atti per falsa testimonianza per una serie di soggetti e tra questi anche l’ex vescovo monsignor Benigno Luigi Papa e il giornalista Pierangelo Putzolu.

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view post Posted on 15/3/2021, 16:06
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Taranto, ArcelorMittal:

il Consiglio di Stato sospende chiusura area a caldo

La quarta sezione di Palazzo Spada, in attesa dell’udienza di merito del 13 maggio prossimo,
ha accolto la richiesta di sospensiva presentata da ArcelorMittal e Ilva in As



Il Consiglio di Stato-Quarta Sezione, in attesa dell’udienza di merito del 13 maggio prossimo, ha accolto la richiesta di sospensiva presentata da ArcelorMittal e Ilva in As contro la chiusura dell’area a caldo dello stabilimento siderurgico di Taranto. Sono stati così congelati gli effetti della sentenza del Tar di Lecce che aveva imposto ai ricorrenti di dar seguito all’ordinanza sulle emissioni del sindaco di Taranto Rinaldo Melucci e di procedere entro 60 giorni dalla notifica, cioè entro il 14 aprile, alla fermata degli impianti.

Anche ArcelorMittal Italia in una nota precisa di non avere, in conseguenza della pronuncia del Consiglio di Stato, «l'obbligo di avviare la fermata dell’area a caldo dello stabilimento di Taranto e degli impianti connessi. L'attività produttiva dello stabilimento - aggiunge l’azienda - può dunque proseguire regolarmente». L’ordinanza del sindaco di Taranto Rinaldo Melucci, emessa il 27 febbraio del 2020, fu sospesa dal Tar il successivo 24 aprile dopo i ricorsi di ArcelorMittal e Ilva in As, chiamate dal giudice amministrativo a consegnare entro il 7 ottobre dello scorso anno ulteriore documentazione. Ma gli elementi forniti non sono stati ritenuti sufficienti dal Tar Puglia a dimostrare che le criticità erano state rimosse. Il provvedimento di Melucci imponeva ad ArcelorMittal e Ilva in amministrazione straordinaria di individuare e risolvere entro 30 giorni le criticità delle emissioni e, in difetto di adempimento, di procedere entro i successivi 30 giorni alla fermata dell’area a caldo (Altiforni, Cokerie, Agglomerazione e Acciaierie, compresi eventuali impianti funzionalmente connessi). Il sindaco parlò di ripetuti fenomeni emissivi con rischi per la salute della popolazione, partendo dalla denuncia dei sindacati in merito allo sforamento di valori registrato in quattro giorni di agosto del 2019 (5, 17, 18 e 19) per le emissioni in atmosfera dal camino E312. ArcelorMittal ha sostenuto nel ricorso che le relazioni Ispra confermarono il rispetto delle prescrizioni Aia.

IL COMMENTO DEL SINDACO MELUCCI - «Nessuna sorpresa, nessuna variazione sul percorso che abbiamo impostato con l'intera comunità. E quand'anche gli esiti dell'udienza di maggio del Consiglio di Stato dovessero prevaricare l'aspirazione di mezzo milione di cittadini e i diritti fondamentali sanciti dal TAR di Lecce, noi andremo avanti in ogni grado di giudizio, anche in sede europea. Ringraziamo la Regione Puglia per la vicinanza, lascia esterrefatti Invitalia, un pezzo di Stato, con tanti interessi a Taranto, che opera in maniera non trasparente e si associa ad ArcelorMittal. È un grave danno di credibilità al Governo della transizione ecologica del Presidente Mario Draghi. Ora verifichiamo cosa c'è nel Recovery Plan per l'ex Ilva, di lì capiremo davvero tante cose. L'unica certezza è che noi fermeremo l'area a caldo dello stabilimento siderurgico, con ogni mezzo possibile, ogni giorno sarà una pena per loro e per chi intenderà danneggiare ancora la vita dei tarantini e interferire con la svolta della città».

«Un plauso alla sentenza del Consiglio di Stato che sospende lo spegnimento dell’area a caldo dell’Ilva. Bisogna cambiare approccio: chiudere gli stabilimenti e bloccare le produzioni, non è la via giusta, è una strada senza uscita, non costruisce futuro, rischia solo di creare un disastro sociale e un deserto industriale. Nessuno vuole un’altra Bagnoli». Lo dichiara il presidente di Confindustria Puglia, Sergio Fontana, commentando la sentenza del Consiglio di Stato che ha accolto il ricorso di ArcelorMittal contro la chiusura dell’area a caldo dell’ex Ilva di Taranto. "Noi ci auguriamo che il nuovo Ministero della Transizione ecologica sia l’inizio di una politica ambientale nuova, non più fondata sul pregiudizio che l’impresa sia il nemico giurato dell’ambiente» aggiunge Fontana, secondo il quale proprio «la Puglia si candida a diventare il primo banco di prova per il neo ministro Cingolani con due questioni: la riconversione dell’Ilva di Taranto e la decarbonizzazione in atto nella centrale termoelettrica di Cerano, a Brindisi. Due questioni di ingente portata che, se ben gestite, potranno far nascere in Puglia un modello per tutto il Paese». Per Fontana «non si tratta solo di riconvertire questi stabilimenti, ma di creare intorno a questi nuova economia. Per tutto ciò le risorse già stanziate non sono sufficienti. Complessivamente, al momento, ci sono 1,2 miliardi del Just Transition Fund. Questi fondi sono destinati a due sole iniziative di decarbonizzazione in Italia (quella di Taranto e del Sulcis). Il fabbisogno di intervento solo in Puglia, come nel resto del Paese, è, però, molto più ampio».

MINISTRO GIORGETTI: SOSPENSIVA DARA' TEMPO PER SOLUZIONE - «Accogliamo con rispetto la decisione sull'ex Ilva anche se non crediamo che la soluzione della crisi possa passare dalle Aule di tribunale. Questa pronuncia dà comunque la possibilità e il tempo alla politica e al Mise in particolare di cercare la soluzione per gli operai, l’azienda e la produzione siderurgica italiana che rappresenta un asset strategico oltre che un’eccellenza e va tutelata». Così il ministro dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti sull'accoglimento del Consiglio di Stato della richiesta sospensiva di ArcelorMittal.

LE PAROLE DELL'USB - «La decisione con cui il Consiglio di Stato dispone la sospensione della sentenza del Tar Lecce, dando di fatto ad ArcelorMittal la possibilità di portare avanti l'attività produttiva anche con riferimento all’area a caldo, toglie tutti i dubbi circa la lista delle priorità per quel che riguarda la città di Taranto. Ancora una volta la salute scivola in coda e al primo posto c'è l’interesse privato dell’azienda, dunque il profitto a tutti i costi». Lo dichiarano Sasha Colautti dell’Usb nazionale e Francesco Rizzo dell’Usb di Taranto in merito alla decisione dei giudici amministrativi di accogliere la richiesta di sospensiva di ArcelorMittal e Ilva in As. «Ci aspettiamo da parte del Governo - aggiungono - una serie di proposte ed un accordo di programma che possa ripensare lo sviluppo economico del territorio, e soprattutto che parta dal punto di vista della città e dei lavoratori, piuttosto che da quello dell’azienda».

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view post Posted on 25/5/2021, 10:32
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Ex Ilva, «C’è nesso causale tra le polveri inquinanti e i morti di Taranto»


Il centro studi Remarc (Università di Pisa) replica alle dichiarazioni dell’ad di Acciaierie Italia, Morselli

di Mimmo Mazza

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TARANTO - «Negli ultimi anni è cresciuta la letteratura scientifica che dimostra il nesso causale tra l’esposizione agli inquinanti Pm 10 e l’eccesso di mortalità della popolazione residente a Taranto. Minimizzare questa evidenza significa non rispettare i cittadini e le cittadine della città di Taranto, che sono tra i principali stakeholder di Acciaierie d’Italia»: ha una firma autorevole - i docenti del Remarc, il centro di ricerche del dipartimento di Economia e Management dell’università Pisa - la replica alle dichiarazioni fatte il 14 maggio scorso dall’amministratore delegato di Acciaierie Italia Lucia Morselli durante il ciclo di incontri «Meeting Generation» organizzato dall’associazione dei laureati dell’Università di Pisa e dall’associazione Starting Finance UniPi.

Qui l'articolo relativo alle dichiarazioni della Morselli:
https://www.lagazzettadelmezzogiorno.it/ne...-di-milano.html

Nel corso del suo intervento la Morselli ha affermato che «il più grande emettitore di CO2 siamo noi, umani ed animali», che il «problema del CO2 è nato perché siamo troppi», e ancora che i «cambiamenti climatici sono influenzati anche dalle interferenze cosmiche». Secondo i docenti e i ricercatori di Remarc, «sono argomenti non supportati da numeri e spesso usati per minimizzare il problema del cambiamento climatico e il ruolo che la produzione industriale - inclusa quella del settore siderurgico (che contribuisce a circa il 7% delle emissioni globali di CO2) - ha nel determinare i processi di cambiamento climatico. Sappiamo anche che circa il 10% della popolazione più ricca a livello mondiale è responsabile di più della metà della crescita delle emissioni clima-alteranti nel periodo 1990-2015. Questi dati suggeriscono come il problema della sovrappolazione sia marginale rispetto al fatto che una quota relativamente piccola della popolazione mondiale abbia sfruttato la gran parte delle risorse naturali disponibili sul pianeta».

La Morselli ha anche affermato - richiamando argomenti utilizzati dalla difesa nel processo Ambiente svenduto sul presunto disastro ambientale provocata dall’Ilva durante la gestione della famiglia Riva - che «la qualità dell’aria di Taranto è venti volte migliore di quella di Milano», frase che ha subito fatto il giro delle agenzie e del web. Per Remarc, «i dati Ispra 2019 effettivamente documentano che Milano ha valori di Pm 10, Pm 2.5, NO2, O3 superiori a quelli di Taranto, ma non di “venti volte” (per esempio, secondo i dati Ispra le emissioni medie di Pm 10 di Taranto sono circa un terzo, non un ventesimo, di quelle di Milano, mentre quelle di Pm 2.5 sono circa la metà). L’inquinamento ambientale a Taranto legato alle emissioni di benzoapirene e altri inquinanti è ampiamente documentato da numerose perizie come quelle realizzata nel 2012 dagli esperti dell’associazione italiana di epidemiologia su richiesta del gip Patrizia Todisco nel processo Ilva. Uno dei periti, il professor Annibale Biggeri dell’Università di Firenze, in una intervista dichiarava che “uno degli avvocati dell’Ilva ha argomentato che i livelli di pm10 di Taranto sono inferiori a quelli delle grandi città del nord. Argomentazione che si sgonfia se si valutano le rilevazioni nel quartiere Tamburi.

Ci si può girare intorno se si vuole, ma l'attuale situazione di quegli impianti non è compatibile con la salute della gente". Negli ultimi anni - si legge nel documento stilato dagli studiosi di Remarc - è anche cresciuta la letteratura scientifica che dimostra il nesso causale tra l’esposizione agli inquinanti Pm 10 e l’eccesso di mortalità della popolazione residente a Taranto. Minimizzare questa evidenza significa non rispettare i cittadini e le cittadine della città di Taranto, che sono tra i principali stakeholder di Acciaierie d’Italia. Al di là delle inesattezze, le affermazioni della dott.sa Morselli possono essere discusse alla luce delle più recente letteratura scientifica in campo economico e manageriale. L’amministratrice di Acciaierie d’Italia afferma che la strategia dell’ex-Ilva è quella di “produrre acciaio”. Ma occorre riconoscere che esistono diversi modi per farlo».

Secondo Remarc, «i modelli di business orientati unicamente alla massimizzazione del profitto, spesso richiamati dalla dott.ssa Morselli, sono oramai superati. La letteratura scientifica mostra come le imprese che non rispettano i propri stakeholder – i diritti dei lavoratori, la salute delle comunità – tendono a distruggere valore economico nel lungo periodo e la storia dell’Ilva di Taranto ne è certamente un esempio».
L’obiettivo principale del centro di ricerche Remarc è condurre una ricerca all'avanguardia sulla gestione responsabile e lo sviluppo sostenibile e avere un impatto su manager, responsabili politici e altri stakeholder. Letta in quest’ottica si comprende la portata dalla replica alla Morselli che fonti ben informate danno, intanto, in uscita da Acciaierie Italia. Pare che la famiglia Mittal abbia deciso di interrompere il rapporto iniziato nell’ottobre del 2019 ma che si stia trattando sulla buonuscita, milionaria. Staremo a vedere.


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view post Posted on 31/5/2021, 16:41
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300 anni di carcere per i veleni dell'Ilva,

i Riva e Vendola tra i condannati


Giustizia per Taranto ad HuffPost: "L'impianto va chiuso".
Confiscata area a caldo, ma con facoltà d'uso fino a giudizio definitivo



È arrivata dopo quasi nove anni dagli arresti e dal sequestro di parte degli impianti, cinque anni di processo e 12 giorni di camera di consiglio la sentenza di primo grado del processo “Ambiente Svenduto”. Era metà mattinata quando i giudici della corte d’Assise di Taranto hanno pronunciato il lungo dispositivo sul disastro ambientale causato dagli impianti dell’acciaieria Ilva. Quarantaquattro gli imputati, tre società coinvolte e una somma di condanne pesantissime. I pm avevano chiesto per gli imputati pene per circa quattro secoli. La somma di quelle inflitte dal collegio - per disastro ambientale, all’avvelenamento di sostanze alimentari, all’omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro e altri reati - raggiunge una cifra inferiore, ma le richieste dell’accusa sono state sostanzialmente soddisfatte, salvo alcune assoluzioni. E il totale di anni di carcere inflitti è 299.

Viene scritta così - anche se siamo solo al primo grado di giudizio - una pagina importante della storia dell’acciaieria, ma soprattutto di una città che da decenni, ormai, vive il dramma di essere in bilico tra il diritto al lavoro e il diritto alla salute. Quest’ultimo, lo denunciano da anni gli attivisti e lo ha in sostanza ribadito il giudice oggi, troppo spesso messo in secondo piano. La decisione - che prevede, tra l’altro, la confisca dell’area a caldo - riguarda fatti del passato, ma incide sul presente e interroga sul futuro. Una parte molto di importante di questo futuro è l’intesa tra ArcelorMittal e Invitalia, che dovrebbe vedere la fase finale a maggio 2022. Ma sull’accordo pesa una delle clausole sospensive: l’intesa, infatti, potrebbe diventare operativa solo in assenza di sequestri penali sugli impianti. Bisognerà vedere ora come le parti si porranno rispetto a questa confisca, che comunque sarà eventualmente operativa alla fine del terzo grado di giudizio. E quindi, per il momento, non avrà effetti.

Il verdetto del giudice. Pesanti le condanne per i Riva, ex proprietari e amministratori dello stabilimento di Taranto. Fabio e Nicola Riva sono stati rispettivamente condannati a 22 e 20 anni di reclusione. Il legale di Fabio, Luca Perrone, dopo la sentenza precisa: “Come ammesso dagli stessi periti, sotto la gestione dei Riva Ilva ha sempre operato e prodotto rispettando tutte le normative vigenti. I Riva hanno costantemente investito ingenti capitali in Ilva al fine di migliorare gli impianti e produrre nel rispetto delle norme”. Secondo l’avvocato Perrone, “come anche certificato dall’Arpa, nel corso della gestione Riva sono state adottate le migliori tecniche/tecnologie allora disponibili (Best Available Technology del 2005) e come sempre i Riva si sarebbero prontamente adeguati anche a quelle del 2012 nei quattro anni successivi previsti dalle normative”. L’avvocato Pasquale Annicchiarico, difensore di Nicola Riva, fa presente che il suo assistito ”è stato presidente solamente due anni, dal 2010 al 2012, e sotto la sua presidenza si sono raggiunti i migliori risultati ambientali della gestione Riva con valori di diossina e benzoapirene bassissimi che si collocano a meno della metà dei limiti consentiti dalla legge”. “Risultati straordinari - osserva Annicchiarico - dovuti agli investimenti quantificabili in oltre 4 miliardi di euro e alla gestione degli impianti sempre tesa al massimo rispetto delle normative ambientali”.

Vendola condannato a tre anni e mezzo: “Mi ribello a una giustizia che calpesta la verità”. Un’altra condanna che pesa è quella per Nichi Vendola. Per lui il giudice ha disposto 3 anni e mezzo di carcere per concussione aggravata in concorso. Il pm aveva chiesto per lui cinque anni in quanto avrebbe esercitato pressioni sull’allora direttore generale di Arpa Puglia, Giorgio Assennato, per far “ammorbidire” la posizione della stessa Agenzia nei confronti delle emissioni nocive prodotte dall’Ilva. Durissima la reazione dell’ex governatore della regione Puglia, che si scaglia contro i giudici che hanno deciso: - “Mi ribello ad una giustizia che calpesta la verità. È come vivere in un mondo capovolto, dove chi ha operato per il bene di Taranto viene condannato senza l’ombra di una prova. Una mostruosità giuridica avallata da una giuria popolare colpisce noi, quelli che dai Riva non hanno preso mai un soldo, che hanno scoperchiato la fabbrica, che hanno imposto leggi all’avanguardia contro i veleni industriali. Appelleremo questa sentenza, anche perché essa rappresenta l’ennesima prova di una giustizia profondamente malata”.

Le altre condanne. 21 anni e 6 mesi di carcere sono stati disposti per l’ex responsabile delle relazione istituzionali Girolamo Archinà e a 21 anni l’ex direttore dello stabilimento di Taranto Luigi Capogrosso. Il legale di Archinà, Giandomenico Caiazza, parlando all’AdnKronos accusa: “Del merito di questa sentenza, tanto incredibile quanto ampiamente preannunciata, parleremo con le nostre impugnazioni. Mi interessa solo richiamare l’attenzione sulla dimensione scenografica della lettura del dispositivo. In prima fila, al centro dell’aula, solo un lungo e comodo banco per l’Accusa. Per la Difesa nemmeno un simbolico strapuntino. Una foto perfetta - ha aggiunto - nitida e veritiera di questo processo, una vicenda interamente appaltata alla Pubblica Accusa, nella quale la Difesa ha rappresentato solo un inevitabile intralcio. Mai visto uno spettacolo del genere - solo il banco per l’Accusa - in tutta la mia carriera di avvocato”.

Ai principali ‘fiduciari aziendali’, cioè persone non alle dipendenze dirette dell’Ilva che però avrebbero costituito un ‘governo ombra’ agli ordini dei Riva nello stabilimento, la Corte d’Assise di Taranto ha inflitto 18 anni di reclusione ciascuno. 4 anni, rispetto ai 20 anni richiesti per l’ex direttore e attuale dirigente di Acciaierie d’Italia Adolfo Buffo, mentre è stato assolto l’ex presidente di Ilva ed ex prefetto di Milano Bruno Ferrante, per il quale era stata chiesta la condanna a 17 anni di carcere. Condanna a 11 anni e mezzo per l’ex capo area parchi Marco Andelmi, a 5 anni e mezzo l’avvocato Francesco Perli, legale dell’azienda. A vario titolo erano contestati i reati di associazione per delinquere finalizzata al disastro ambientale doloso, all’avvelenamento di acque e sostanze alimentari, getto pericoloso di cose, omissione di cautele sui luoghi di lavoro, due omicidi colposi in relazione alla morte sul lavoro di due operai, concussione, abuso d’ufficio, falso ideologico e favoreggiamento.

Il comitato Giustizia per Taranto: “Gestione Ilva da criminali, ora non lo diciamo più solo noi. Impianto va chiuso” Ad attendere la sentenza di stamattina c’erano associazioni e cittadini che negli anni si sono interessati alla controversa vicenda dell’Ilva. Tra queste il comitato Giustizia per Taranto: “Siamo soddisfatti per la decisione del giudice - dice ad HuffPost Luca Contrario, uno dei membri del comitato - per la città questo è un momento storico. Allo stesso tempo però non possiamo non sottolineare che oggi a dire che gli impianti erano gestiti in maniera criminale non siamo più solo noi, definiti in passato terroristi e hippy, ma anche un giudice, Questa sentenza ristora, anche se solo in parte, i cittadini del dolore sopportato per la morte di bambini ed operai”. Per Contrario questa decisione dovrebbe avere anche ripercussioni sul futuro: “La confisca di una parte dell’impianto, come sappiamo, sarà operativa solo alla fine di tutti i gradi di giudizio. Ma noi crediamo che, alla luce di questa decisione, lo stabilimento ex Ilva dovrebbe essere chiuso già da domani mattina”.

In piazza, ad aspettare la sentenza, c’era anche Massimo Castellana, rappresentante legale del Comitato cittadino per la Salute e l’Ambiente e portavoce dell’associazione Genitori Tarantini, che ai cronisti che erano sul posto ha detto: “Le condanne sono state all’altezza del lavoro fatto dai magistrati. A loro va il nostro grazie anche a nome dei bambini di questa martoriata città”. È per Taranto dopo tante giornate tristi e insopportabili per il dolore che hanno procurato. Finalmente i giudici definiscono quella che ha subito la città di Taranto per troppi anni: l’assoluto disconoscimento dei valori fondamentali della Costituzione”. Parla di sentenza storica anche Stefano Ciafani di Legambiente. Una sentenza che, spiega “certifica che nel capoluogo ionico c’è stato un disastro ambientale, causato dalla proprietà dell’impianto, che la nostra associazione cominciò a denunciare già negli anni ’80 quando lo stabilimento era ancora pubblico, e che ha procurato tanti malati e morti tra dipendenti e cittadini”.

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Condanne durissime, condannati anche per i politici

Sentenza Ambiente Svenduto, confiscati gli impianti dell'area a caldo ILVA

Nessuno aveva mai parlato della diossina a Taranto prima del 2005.
Fummo noi a prenderci la responsabilità e i rischi di denunciarlo pubblicamente.
Oggi è una grande giornata di liberazione dopo una lunga resistenza e tante vittime.
Venivano chiamati "allarmisti" ma avevano ragione noi.




Era tanto attesa. Ed è arrivata.

La sentenza sull'ILVA farà parlare, farà discutere, farà arrabbiare più di qualcuno.

Quella sentenza è il frutto di una lunga lotta a cui abbiamo dato il via nel febbraio 2008, portando in un laboratorio specializzato un pezzo di pecorino contaminato dalla diossina. Il latte di quel formaggio proveniva da pecore e capre che avevano brucato nei pascoli attorno all'ILVA. Avevamo letto su un giornale che, attorno allo stabilimento, pascolava un gregge. La cosa ci incuriosì. Ci mettemmo alla ricerca del pastore. Una nostra ecosentinella, Piero Mottolese, lo incontrò. Non stava bene. Quel pastore morirà di cancro dopo non molto.

Ma facciamo un passo indietro.

Tre anni prima, nel 2005, avevamo scoperto che a Taranto c'era la diossina. Nessuno aveva mai parlato prima della diossina. La parola diossina era sconosciuta a tutti nella città dell'acciaio. Era come se un segreto venisse gelosamente custodito. I sindacati CGIL-CISL-UIL avevano partecipato a tanti tavoli tecnici e alle riunione degli atti di intesa con l'ILVA, ma la parola diossina non era mai venuta fuori fino al 2005. Fino a quel giorno di aprile in cui PeaceLink la lanciò con un comunicato stampa che venne letto come prima notizia al TG3 della Puglia. Ma quella notizia data dalla RAI con tanta evidenza probabilmente non era di interesse o di gradimento gradimento per la politica perché nessuno ne fece menzione. Eppure la diossina è un cancerogeno classificato dalla IARC il classe I, ed è un formidabile contaminante dell'ambiente e della catena alimentare. Ma come mai nessuno aveva mai pronunciato quella parola a Taranto? Non lo sappiamo, ma possiamo intuirne le ragioni. Sappiamo solo che ci imbattemmo nella diossina scandagliando i dati di un database europeo nel quale c'erano le sigle PCDD e PCDF che - a chi non sa di chimica - non dicevano nulla. Anche in quel caso l'indizio ci incuriosì. E venne fuori la terribile verità.

Fummo noi di PeaceLink a prenderci quella grave responsabilità nel 2005. E a portare nel 2008 in laboratorio il formaggio.

Per anni e anni abbiamo incontrato persone che ci dicevano scherzando: non vi hanno ancora arrestato?

Avevamo un'etichetta addosso: "allarmisti".

In realtà due sono le parole che hanno guidato la nostra azione: curiosità e responsabilità.

Spirito di curiosità e senso della responsabilità.

Ficcanaso impiccioni che non si facevano i fatti propri, insomma.

Di fronte a chi pensava di cambiare il mondo con le grandi teorie, noi, più modestamente, ci accontentavamo dei dettagli. E dai dettagli ricostruivamo il mosaico generale, in un processo di ricerca e ricomposizione dei nessi. Possiamo definire questa metodologia "la rivoluzione dei dettagli", prendendo in prestito il titolo di un libro della mia amica Marinella Correggia.

Quella rivoluzione dei dettagli ha guidato ricerche sempre più vaste. E se oggi si va a vedere quanto materiale abbiamo accumulato con questa metodologia c'è solo da rimanere sbalorditi. E si rimane sbalorditi per l'immenso lavoro svolto dalla polizia giudiziaria e dai magistrati. A cui diciamo grazie per aver condotto con rigore un'azione scomoda ma necessaria e di somma importanza.

Oggi è una grande liberazione. I ficcanaso impiccioni, quelli che venivano chiamati "gli allarmisti", avevano ragione.

Sì. Proprio così. Avevamo ragione.

Oggi fioccano le condanne. E gli impianti pericolosi vengono confiscati.

31 maggio 2021
Alessandro Marescotti (presidente PeaceLink)



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Sentenza Ilva: le responsabilità di Nichi Vendola

e il ruolo della società civile


La sentenza della Corte d'Assise di Taranto, che tra l'altro condanna
Nichi Vendola per concussione aggravata, rende omaggio a quella parte
della società civile che è stata in prima linea nel perseguire il bene pubblico.


di Antonia Battaglia


La prima reazione all’annuncio della sentenza di primo grado emessa dalla Corte d’Assise di Taranto per il processo “Ambiente svenduto”, sulle irregolarità nel controllo ambientale dello stabilimento ex ILVA di Taranto, è stata di gioia. Per la dignità resa alla lotta ambientalista della città, per il riconoscimento dei suoi morti, dei danni morali e dei decenni di proteste pacifiche e di tormenti sociali di fronte alla scelta malvagia in cui Taranto è stata lasciata sola: vita o lavoro, fame o salute. Una scelta che non avrebbe mai dovuto esistere, i due diritti fondamentali alla salute e al lavoro sono la base della Costituzione italiana.

Non importa che si tratti di un primo passo, quello che conta è che c’è stato, che si sia sancita una verità giudiziaria, senza equivoci. Adesso esistono un punto di arrivo, la sentenza, e uno di partenza, il dopo, definiti, netti, dettagliati nelle diverse declinazioni delle azioni che gli attori del dramma Ilva hanno commesso e per cui sono stati condannati.

Tra di essi, oltre a Fabio e Nicola Riva, ex proprietari e amministratori dell’azienda, c’è Nichi Vendola, ex presidente della Regione Puglia, condannato a 3 anni e mezzo di carcere per concussione aggravata. Subito dopo la sentenza, Vendola ha dichiarato che il verdetto calpesta la verità, che le sentenze ingiuste si appellano e che questa non è solo ingiusta ma è una barbarie.

Vendola è accusato di aver esercitato pressioni sull’allora direttore dell’Arpa Puglia Giorgio Assennato quando il benzo(a)pirene, inquinante cancerogeno, aveva superato i limiti di legge nel quartiere Tamburi, adiacente allo stabilimento Ilva.

Le parole di Vendola testimoniano di una doppia mancanza: quella morale del leader politico e quella tecnica dell’amministratore della regione. Nella sua intervista al Corriere della Sera del 1° giugno, Vendola lascia trasparire una nota di critica a una giustizia che chiama spettacolarizzata, rea, nelle sue parole, di aver sporcato la sua limpida storia politica, forse dimenticando le risate al telefono con Archinà e le sue parole di stima per Riva.

Perché, se come leader morale Vendola avrebbe dovuto incarnare quel cambiamento in cui tutti avevamo sperato, come amministratore avrebbe dovuto premurarsi di proteggere cittadini e operai di Taranto contro ogni possibile violazione dei limiti di legge ad opera di Ilva.

Da quanto si ricava dai dati presentati durante il processo “Ambiente Svenduto” da Peacelink, il presidente della Regione era a conoscenza degli sforamenti di un inquinante cancerogeno come il benzo(a)pirene misurato dall’Arpa al quartiere Tamburi e avrebbe dovuto esigere dalla dirigenza Ilva la messa a norma dello stabilimento o il fermo degli impianti. Né si oppose alla pessima Autorizzazione Integrata Ambientale (AIA) che permise all’Ilva di continuare a stoccare i minerali all’aria aperta e di aumentare la produzione, fino a consentire una capacità produttiva mai raggiunta prima.

La domanda, a sentenza disposta, è perché Vendola non si sia rivolto alla magistratura di fronte a una situazione così grave e abbia preferito dialogare con Riva per di più attestando di stimarlo. Avrebbe potuto fare molto. Avrebbe potuto essere il motore di quel cambiamento politico che non c’è stato e che non ha mai trovato risposte nella politica regionale e tantomeno in quella nazionale, ma che invece è partito dalla società civile tarantina e che è stato compiuto dalla giustizia. La giustizia non è finita oggi, la giustizia era finita nel 2012 quando, dopo il fermo degli impianti inquinanti disposto dal gip Patrizia Todisco, si procedette a un decreto “salva-Ilva” per riaprire gli stessi impianti nonostante il grave danno alla salute.

Ci sono altre dimensioni che la sentenza della Corte d’Assiste solleva e pone alla ribalta, come se Taranto fosse di nuovo il campanello di allarme di una situazione più ampia, di un laissez-faire generale che ogni governo, uno dopo l’altro, ignora, poi minimizza, quindi rimanda. Una lunga lista di appuntamenti mancati con la storia. Adesso però si tratta di Storia con la s maiuscola. Perché se si arriva a immaginare di stanziare fondi del Recovery Fund per il ponte sullo stretto di Messina, opera che deturperebbe il paesaggio e i cui presupposti benefici (migliorare gli scambi tra Sicilia e Continente) potrebbero essere raggiunti con il potenziamento delle linee ferroviarie al di là e al di qua delle due sponde, allora si spera che la Storia stavolta passi da Taranto, e che quel rilancio verde, la riconversione a tutto campo di cui si discute da decenni, possa avvenire.

Il mondo post Covid-19 cambia le sue priorità e forse sarebbe il momento (lo è da decenni) di coinvolgere la città (con tutte le sue anime e le sue diverse parti) nella decisione sul suo futuro. Una classe politica avvisata, moderna nelle sue idee e nell’immaginare soluzioni di bene pubblico che vadano ben oltre gli effimeri – per natura – equilibri politici, potrebbe fare di Taranto la pietra miliare di quel rinnovamento verde di cui la Commissione europea ha fatto la propria bandiera e sulla quale si costruiscono i valori dell’Europa verde, digitale, della ricerca e della scienza.

Per finire, una nota di speranza. Il ruolo della società civile è sempre più centrale nelle comunità moderne nel dar forma e sostanza alla politica. I grandi movimenti di cambiamento per il riconoscimento dei diritti sociali, delle eguaglianze e per la protezione dell’ambiente sono tutti partiti dal basso e hanno spesso incontrato la resistenza di un potere sovente distante e poco incline a cedere il passo al nuovo.

È accaduto a Taranto. Accade, con modalità e in situazioni politiche diverse, in tanti Paesi europei. La Conferenza sul Futuro dell’Europa, inaugurata il 9 maggio scorso, mette i cittadini al centro, motore, anima e cuore di quello che si vuole un rinnovamento profondo della res pubblica europea. La sentenza rende omaggio a quella parte della società civile che è stata in prima linea nel perseguire il bene pubblico. Conoscitori del diritto, tormentati per decenni nella scelta tra lo stipendio a fine mese e il male oscuro prodotto dalla fabbrica, insultati dalla politica, lasciati indietro nella scala infinita delle possibilità concesse alla nascita a ogni essere umano.

Che il futuro adesso ricominci da questa sentenza memorabile e fino a qualche anno fa inimmaginabile.


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Ex Ilva, arrestati Piero Amara e il poliziotto Filippo Paradiso.

Obbligo di dimora per l’ex procuratore di Taranto Carlo Maria Capristo


In carcere l'ex legale di Eni e il poliziotto già in servizio negli uffici
di diretta collaborazione dei vari sottosegretari alla Presidenza del Consiglio.
Ai domiciliari l'avvocato Giacomo Ragno, condannato in primo grado
nel processo ai magistrati Nardi e Savasta.
Al centro dell'inchiesta l'accordo tra procura di Taranto
e Ilva in amministrazione straordinaria, di cui Amara era consulente legale


di Francesco Casula

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Scambi di favori nell’ambito di procedimenti che riguardavano l’ex Ilva di Taranto. È questo il cuore dell’inchiesta della procura di Potenza che ha portato all’arresto dell’ex legale di Eni, Piero Amara, e all’obbligo di dimora per l’ex procuratore di Taranto Carlo Maria Capristo. Le misure cautelari emesse dal gip del tribunale lucano riguardano anche il poliziotto Filippo Paradiso e l’avvocato Giacomo Ragno. Tra le accuse anche la corruzione in atti giudiziari.

In carcere sono finiti Amara e Paradiso, già in servizio negli uffici di diretta collaborazione dei vari sottosegretari alla Presidenza del Consiglio, con Prodi, come con Berlusconi, e al ministero dell’Interno, come collaboratore della segreteria di Matteo Piantedosi, allora capo di gabinetto di Matteo Salvini, e quindi finito nella segreteria di Carlo Sibilia. Arresti domiciliari invece per Ragno, già condannato a 2 anni e 8 mesi nell’indagine sul “Sistema Trani” che riguardava i pm Antonio Savasta e Michele Nardi. I fatti contestati risalirebbero al periodo nel quale Capristo – già arrestato a maggio 2020 nell’ambito di un’altra inchiesta e poi tornato libero mentre è a processo – era procuratore a Taranto e riguarderebbero anche un patteggiamento legato all’ex Ilva.

L’inchiesta coordinata dal procuratore di Potenza, Francesco Curcio, era stata anticipata lo scorso giugno da Ilfattoquotidiano.it in una lunga ricostruzione di quanto avvenuto negli scorsi anni nell’ambito di un procedimento sull’ex Ilva. L’indagine ruota intorno alla scelta di Amara come consulente della struttura legale di Ilva in As e partecipa alla cosiddetta “trattativa” con la procura per raggiungere quel patteggiamento che qualche anno prima, il pool di magistrati guidati allora da Franco Sebastio, aveva respinto.

Lo staff legale dell’Ilva alza la posta offrendo il pagamento di una sanzione pecuniaria di 3 milioni di euro, 8 mesi di commissariamento giudiziale e 241 milioni di euro di confisca (invece dei 9 proposti nella prima istanza) come profitto del reato da destinare alla bonifica dello stabilimento siderurgico di Taranto. Ma i giudici della Corte d’assise ritennero “le pene concordate con i rappresentati della pubblica accusa” sono “sommamente inadeguate e affatto rispondenti a doverosi canoni di proporzionalità rispetto alla estrema gravità dei fatti oggetto di contestazione”.

Ma non è tutto. Nel periodo della trattativa, l’avvocato Giuseppe Argentino, figlio dell’allora procuratore aggiunto Pietro, poi nominato a capo della procura di Matera, entra a far parte dello studio Amara a Roma. A questo si aggiunge che a marzo 2017, due società, la “Dagi” e la “Entropia Energy”, di cui Amara è amministratore di fatto, si domiciliano a Martina Franca, in provincia di Taranto: come risulta dagli atti dell’inchiesta di Roma che coinvolse Amara, Giuseppe Argentino è indicato come uno dei consulenti della società. Un vortice di incarichi, ruoli, richieste e legami che diventa sempre più complesso e intricato. E che oggi, secondo la procura di Potenza, è stato sbrogliato.

www.ilfattoquotidiano.it

 
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view post Posted on 9/6/2021, 16:55
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Le mani di Piero Amara sull’Ilva di Taranto:

spunta un “patto” con il procuratore sulla pelle di due operai morti sul lavoro

Nelle pieghe dell’ordinanza che ha portato all’arresto dell’avvocato
corruttore di magistrati emergono le anomalie delle indagini
dopo due gravissimi incidenti mortali negli impianti dell’acciaieria

di Antonio Fraschilla


Un patto corruttivo che getta un’ombra sull’azione della giustizia nei confronti delle famiglie di due operai morti sul lavoro all’Ilva di Taranto. Con dissequestri lampo dopo gli incidenti, e quindi con indagini che sarebbero iniziate già con il piede sbagliato. Nelle pieghe dell’ordinanza del Gip di Potenza che ha portato agli arresti l’avvocato corruttore di giudici e aggiusta sentenze Piero Amara e all’emissione dell’obbligo di dimora per l’ex procuratore di Trani, prima, e poi di Taranto Carlo Capristo, emergono le posizioni a dir poco morbide di un pezzo della procura che su quelle morti ha indagato subito dopo gli incidenti. Con una magistrata che ha poi detto ai colleghi di Potenza di essersi sentita «delegittimata» da Capristo in alcune occasioni proprio in riferimento ai due incidenti sul lavoro che sono costati la vita ad Alessandro Morricella, che il 12 giugno del 2015 è stato investito da una fiammata mista a ghisa incandescente mentre misurava la temperatura di colata dell'altoforno 2, e a Giacomo Campo, che il 17 settembre del 2016 è rimasto schiacciato nel nastro trasportatore dell’altoforno 4.

Secondo i magistrati di Potenza, coordinati dal procuratore Francesco Curcio, c’era un patto corruttivo tra Amara e Capristo, tramite il poliziotto e già componente dello staff della presidente del Senato Casellati, e poi del sottosegretario agli Interni Sibilia, Filippo Paradiso. Amara e Paradiso si sarebbero spesi, tramite le loro influenze e contatti con componenti di peso del Csm, per far nominare Capristo a Taranto, in cambio quest’ultimo avrebbe agevolato le posizioni degli enti difesi da Amara: l’Ilva, in amministrazione speciale, e l’Eni. Nelle trecento pagine dell’ordinanza si punta sul giro di influenze di questa banda di avvocati e faccendieri, con contatti che andavano da Casellati a Boccia, da Ferri ad Ermini e Verdini. E per i magistrati di Potenza, che hanno chiesto è ottenuto dal Gip Antonello Amodeo le misure cautelari non solo per Amara e Capristo, ma anche per consulenti come Nicola Nicoletti della Pwc e legali come Giacomo Ragno, in cambio Capristo si sarebbe messo a loro disposizione. Tanto che, si legge nell’ordinanza, i magistrati parlano di «stabile asservimento di Capristo e delle sue funzioni agli interessi degli indagati». Asservimenti che si sarebbero concretizzati anche in occasione delle indagini e delle azioni della procura all’indomani delle due morti sul lavoro.

Come nel caso dell’operaio Campo, dipendente di una ditta esterna, che rimaneva stritolato nel nastro trasportatore che alimentava l’altoforno 4. Scrive il Gip: «In tale procedimento - nel contesto del descritto patto corruttivo con Capristo - Nicoletti aveva fatto sì che Ilva nominasse Amara quale difensore della persona giuridica (nomina del 19.9.16) e che l'interessato-indagato dirigente Ilva, Ruggiero Cola, nominasse Ragno quale difensore di fiducia». Fin qui non ci sarebbe nulla di anomalo. Ma sono le azioni di Capristo che, a dire dei magistrati di Potenza, paleserebbero il patto corruttivo. Capristo, dopo la morte di Campo, si sarebbe adoperato «in prima persona affinché́ si procedesse con massima sollecitudine al dissequestro dell’altoforno, poi avvenuto in 48 ore, peraltro sulla basa di un assunto conforme alla tesi dell'Ilva ma risultato infondato».

La procura di Taranto infatti, aveva dissequestrato ritenendo che il mancato funzionamento dell'Altoforno e, quindi, il suo raffreddamento, avrebbe determinato la rottura dei refrattari che avvolgono la struttura dell'impianto con conseguente immissione di gas nell’aria. La procura ha nominato come perito un ingegnere suggerito da Amara: Massimo Sorli che «partiva da Torino la domenica stessa, 18 settembre 2016, giungendo a Taranto con volo aereo pagato da Amara tramite suo prestanome, Miano Sebastiano». Ma c’è di più. Non solo Capristo faceva questa nomina lampo, ma in conferenza stampa, poche ore dopo l’incidente, adombrava l’ipotesi che i dirigenti dell’Ilva potessero essere stati vittime di attività di sabotaggio in loro danno. «In particolare – si legge nell’ordinanza - insinuava esplicitamente in alcuni giornalisti il dubbio del sabotaggio e nella conferenza stampa tenuta poche ore dopo il dissequestro lasciava intendere agli organi di stampa che non si trascurava l'ipotesi investigativa secondo cui il sezionamento del nastro trasportatore potesse essere riconducibile a forze interne ed esterne all' llva che remavano contro il risanamento ambientale». A riscontro di questa tesi i magistrati riportano il verbale di un legale dell’Ilva, Loreto, che ha detto: «I contatti con Nicoletti quel sabato furono reiterati e ricordo che ad un certo punto mi disse che aveva visto il Capristo che gli aveva assicurato che la cosa si sarebbe risolta e che l'llva e i suoi dirigenti non sarebbero stati coinvolti perché era evidente che la responsabilità era della ditta appaltatrice, di cui Campo era dipendente e che provvedeva alla manutenzione del nastro». Solo lo scorso anno la procura di Taranto ha chiesto il giudizio di nove tra dirigenti e responsabili dell’Ilva per la morte di Campo.

L’ex procuratore Capristo, secondo la procura di Potenza, ha un atteggiamento anomalo anche nelle indagini sulla morte dell’operaio Morricella. Il 16 giugno del 2020 viene ascoltata la magistrata Antonella De Luca: «Con riferimento ai procedimenti relativi all’Ilva di Taranto, mi sono occupata di un caso di un incidente sul lavoro - il caso Morricella. Inizialmente, con l’allora procuratore Sebastio, disponemmo d'urgenza il sequestro dell'altoforno - poi convalidalo e confermato. Successivamente venne emanato un decreto che rendeva inefficaci i sequestri di impianti di interesse nazionale. Venne sollevala questione di legittimità costituzionale della norma. Nel febbraio 2018 la Corte Costituzionale si pronunciò a nostro favore. Questo rafforzava la nostra posizione e consentiva certamente di revocare l'uso dell'altoforno. Dopo tale pronunciamento della Corte Costituzionale, ricordo vari incontri l’avvocato dell’Ilva, Loreto che erano, a mio avviso, troppo frequenti e inopportunamente avallati dal Procuratore Capristo. Capristo spesso mi convocava in occasione di istanze difensive o di provvedimenti giurisdizionali, alla presenza del Loreto, quasi per prendere decisioni in contradditorio con lui ovvero per esternare allo stesso le nostre convinzioni in merito alle scelte processuali nostre e alle decisioni giurisdizionali prese. Con il procuratore Capristo ogni qual volta venisse presa una decisione dalla Procura seguiva un incontro con gli amministratori e soprattutto con Loreto».

E si arriva al cuore della vicenda Morricella. Continua De Luca a verbale: «Nel momento cruciale del procedimento Morricella, venuta meno grazie alla Corte Costituzionale la norma che impediva il sequestro degli impianti, si doveva a mio avviso dare ordine di esecuzione dell'originario sequestro dell'Altoforno. Su questo argomento Capristo era in disaccordo. Tuttavia io ne ero convinta e lo stesso procuratore aggiunto Carbone in mia presenza disse a Capristo che era inevitabile l'ordine di esecuzione. Ripeto, Capristo mi disse che non voleva sentire parlare di spegnimento del forno e nei giorni successivi cominciò una serie di incontri con gli amministratori e Loreto. La cosa mi diede fastidio. Mi sentivo quasi delegittimata».

Capristo, continua il Gip, dapprima sollecitava il pm titolare delle indagini a concedere la facoltà d'uso dell’altoforno, «nonostante l'accertata parziale inadempienza da parte dell'Ilva alle prescrizioni; poi concordava con Nicoletti, che conseguentemente esercitava pressioni sull'avvocato Francesco Brescia (dell'ufficio legale ILVA) affinché l'operatore sul "campo di colata" fosse indotto a confessare la sua esclusiva responsabilità onde escludere qualsivoglia coinvolgimento dell'azienda e della dirigenza; quindi richiedeva al pm titolare di valutare favorevolmente la posizione dell’ingegnere Ruggero Cola, difeso dall'amico avvocato Ragno, suggerendone lo stralcio e la definizione con richiesta archiviazione (senza raggiungere l'intento grazie alla opposizione del pm che non aderiva alla impostazione difensiva sebbene condivisa dal Procuratore); infine, approfittando del periodo di ferie del pm titolare - induceva il sostituto in servizio ad esprimere parere favorevole a tale facoltà d'uso”.

espresso.repubblica.it

 
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Ilva, il ministro Cingolani: “La sentenza ha proporzioni colossali.

Transizione verso forni elettrici? Io sono pronto.

Ma se si decide che bisogna chiudere, il mio lavoro lì è finito”


Roberto-Cingolani-1050x551

L'INTERVISTA - "Ci sono due strade: la prima è elettrificare il prima possibile. La direzione in tal senso nel Recovery l’ho già data.
Questo se si va nella direzione di salvaguardare dei posti di lavoro.
Se però ci fosse per esempio il Ministero della Salute che bussa e mi dice “guarda che li la situazione è insostenibile” allora si chiude.
Io poi devo rendicontare all'Ue se ho speso un miliardo per un forno di un’azienda su cui peseranno sentenze o altre decisioni.
La sentenza mi spinge ad andare a chiedere: scusate ora che succede?"


di Valentina Petrini


La Corte d’Assise di Taranto ha da poco finito di leggere il lungo dispositivo con l’elenco delle condanne per gli imputati del processo Ambiente Svenduto. E’ un verdetto di disastro ambientale che piomba come un macigno sulla transizione ecologica che deve portare a casa Roberto Cingolani. Il ministro risponde dopo pochi squilli.

Un commento a questa sentenza che mette un punto fermo sulla vicenda Ilva?
Ho scritto ai miei per capire meglio, non riesco a valutare l’impatto, mi sembra però grosso. Mi pare che sia una sentenza importante viste anche la dimensione delle pene. Quando uno legge di condanne oltre i vent’anni, ecco lì secondo me è stata fatta un po’ una pietra miliare, vuol dire che è una cosa di una gravità inaudita. E’ un segnale molto forte.

Lei conosce il quartiere Tamburi? Quello più vicino alla fabbrica e secondo la perizia epidemiologica anche quello più esposto?
Sì, lo conosco. Ci sono passato diverse volte. Un po’ in tutte le città del sud ci sono queste periferie. Però tenga conto che io ho vissuto in posti come Bari, come Lecce, quelle zone popolari sono tutte simili, grandi palazzoni, grande degrado…

Sì ma ci sono enormi differenze tra le periferie di queste città. Lei a Tamburi c’è mai entrato?
No, no. Ho visto solo i guardrail color ruggine ma non altro.

Ma ci abiterebbe?
No, certamente. Ma adesso è molto facile dirlo. Posso farle io una domanda?

Prego.
Non sarebbe stato a suo tempo facile organizzare un trasferimento delle famiglie che ci vivono in una zona più salubre? In Germania è stato fatto.

Oggi è Ministro, può proporlo…
Sì certo, ma mi chiedevo cosa è successo in passato.

La sua meraviglia su ciò che non è stato fatto in passato, è la mia.
Comunque, è fondamentale aggiornare il dato epidemiologico.

Gli impianti siderurgici sono per definizione di legge delle fabbriche che producono esalazioni insalubri, cioè nocive alla salute, per questo le prescrizioni dicono che devono essere poste lontane dalle abitazioni. Come si concilia il diritto alla salute con quello al lavoro?
Non lo so. A me meraviglia che si arrivi a fare questa domanda dopo vent’anni. Io in questo momento l’unica cosa che posso pensare e che possa mitigare il problema è passare presto ai forni elettrici, togliere il carbone, fare il prima possibile il passaggio all’idrogeno verde. Certo è chiaro che è un processo che anche a farlo in fretta un po’ di tempo richiede. Due, tre anni.

Be’ due, tre anni ottimisticamente solo per i forni elettrici?
Sì certo, il problema comunque è che la transizione non è una cosa rapidissima. Io ora quello che non so è se valga la pena di transire. Perché alla fine uno deve anche capire quale sia il rapporto tra il tempo da aspettare per fare la transizione e la salvaguardia della salute. Io questo ora non lo so.

Ah, questa è una notizia.
Le dico francamente: la sentenza scuote l’interesse, ma non è la sentenza a far riflettere, serve riflettere sui numeri. Credo che siamo arrivati al punto in cui bisogna capire se certe cose ha senso farle o meno.

Possiamo ancora definire questo siderurgico, una fabbrica indispensabile per il nostro Pil? E soprattutto qual è la soglia di malattie sostenibile?
In questi bilanci penso vengano prima le malattie, la salute e poi il Pil. Tra l’altro non penso che i numeri della produzione oggi siano come quelli d’oro del passato. Penso che oggi si debba bonificare i territori, mettere a posto e fare tutto quello che c’è da fare.

Quindi lei ora studierà la sentenza, recupererà la storia passata dell’Ilva e rivedrà se ha senso o no la transizione ecologica all’Ilva di Taranto?
Lì ci sono due strade: la prima è elettrificare il prima possibile perché il giorno dopo, con il gas invece del carbone, si abbassa l’inquinamento del 30%. Mettiamo in sicurezza scorie e porcherie e questo è il primo livello, la direzione in tal senso nel Recovery l’ho già data. Questo però se governo e opinione pubblica sono d’accordo a proseguire nella direzione di salvaguardare dei posti di lavoro. Se però ci fosse per esempio il Ministero della Salute che bussa e mi dice “guarda che li la situazione è insostenibile” allora io ho finito il mio lavoro. Se bisogna chiudere, si chiude. Però ecco tutto questo forse si doveva sapere anche mesi fa, anni fa.

E appunto. E allora?
Io non lo so se la situazione non è riparabile. Faccio quello che posso con le informazioni che ho al momento. Certo questa è una sentenza che fa riflettere molto, ha delle proporzioni colossali.

Sì ma quindi?
Senta quando sono arrivato il 13 febbraio, nessuno ha mai parlato di chiudere l’Ilva. Bisognava riparare. Quindi priorità uno, credo di aver fatto la riunione ai primi di marzo, ho detto nel Recovery voglio mettere un miliardo per fare subito la trasformazione dell’altoforno più grosso immediatamente perché senza questo intervento tutto il resto non ha senso. Però il problema l’ho sollevato io. Mi hanno risposto si si, acceleriamo. Però se adesso fossero intervenute altre considerazioni alla luce di questi eventi recenti, beh allora comunque io penso che la transizione ecologica vada adattata alla realtà dei fatti. Se i fatti dicono altro, non usiamo quei soldi per fare una transizione su una cosa che non funziona e non può funzionare. E’ vero che il mondo del lavoro viene toccato, vengono toccati gli operai, che non sono certo i più forti, è sempre un bilancio delicatissimo ma quando c’è di mezzo la salute questa secondo me sovrasta il resto.

Quindi Cingolani, mi sta dicendo che devo chiamare il Ministero della Salute per capire se dopo la sentenza sono cambiate le priorità nel governo?
Le sto dicendo che io sono l’ultimo anello della catena. Sì, con Salute e Sviluppo Economico tocca riaggiornarsi.

Ma scusi non è la sentenza che fornisce elementi nuovi sull’impatto dell’inquinamento sulla salute. Quindi la domanda è come mai non c’era già sui vostri tavoli un dossier che certificasse o smentisse l’emergenza sanitaria?
Certo, certo. Io sono arrivato il 13 febbraio, il 15 ho iniziato a lavorare al Recovery. Tre o quattro giorni dopo ho chiesto incontro con Arcuri, Giorgetti, Franco, Carfagna perché volevo capire cosa dovevo fare per Ilva. Abbiamo fatto questa riunione e sulla base delle spiegazioni che mi hanno dato ho predisposto l’intervento più grosso, quello per l’elettrificazione.

E in questi incontri nessuno le ha messo sul tavolo l’emergenza sanitaria…
No

Quindi di fatto non credo che dobbiamo aspettarci che cambierà qualcosa alla luce delle condanne di primo grado per Ambiente Svenduto…
Però attenzione, io ho un mandato specifico dalla Commissione Europea su settori come quello dell’Ilva. Io questo intervento lo voglio fare se ha senso farlo. Quindi è mio interesse tornare a bussare agli altri ministeri. Questa riflessione deve per forza avvenire, non è possibile che non avvenga. Io la chiederò. Io poi devo rendicontare alla Commissione europea se ho speso un miliardo su un forno di un’azienda su cui peseranno sentenze o altre decisioni. La sentenza mi spinge ad andare a chiedere: scusate ora che succede?

La confisca sarà eventualmente definitiva solo al termine dell’iter giudiziario.
Però è pesantissima.

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view post Posted on 20/6/2021, 12:00
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“A Taranto la combinazione tra piombo e arsenico ha effetti deleteri

sul quoziente intellettivo dei bambini che vivono a ridosso dell’ex Ilva”


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È la conclusione che si legge nello studio italiano pubblicato su Scientific Reports
di Nature il 10 maggio scorso e mai reso noto finora nel nostro Paese.
Tra gli autori c'è il professor Roberto Lucchini, che a ilfattoquotidiano.it spiega:
"Questo lavoro evidenzia come le aree svantaggiate siano ad aumentato rischio
di problemi neurocomportamentali oltre al rischio di minori capacità neurocognitive"


di Marco Carta e Valentina Petrini


“L’interazione sinergica fra piombo e arsenico provoca effetti ancora più marcati su varie funzioni del neurosviluppo nei bambini rispetto a quelli che si possono individuare con l’analisi ‘tradizionale’ che considera i singoli elementi tossici separatamente”. Roberto Lucchini è docente di Medicina del Lavoro. Si divide tra Brescia e la Florida International University di Miami, dove insegna. Al telefono risponde da Brasilia. C’è stata da poco la sentenza Ambiente Svenduto: in primo grado la Corte d’Assise ha stabilito che quello provocato dalla gestione privata della famiglia Riva tra il 1995 e il 2012 è stato un disastro ambientale. Ora gli occhi sono puntati sul Consiglio di Stato che a giorni dovrebbe pronunciarsi in merito all’ordinanza di chiusura dell’aria a caldo emessa dal Comune di Taranto e che invece fotografa l’emergenza ambientale e sanitaria dal 2012 ad oggi.

Non solo. Pochi giorni fa Il Fatto Quotidiano ha pubblicato la notizia che è stata consegnata al ministero della Transizione Ecologica guidato da Roberto Cingolani la nuova VDS, Valutazione del Danno Sanitario che attesta che a 6 milioni di tonnellate annue di acciaio “permane un rischio sanitario non accettabile”. 6 milioni di tonnellate di acciaio è esattamente la quantità che vuole produrre la fabbrica nella sua nuova veste di “Acciaierie d’Italia”, joint venture tra Arcelor Mittal e lo Stato italiano attraverso Invitalia. E mentre è in atto questa discussione sul futuro della produzione di acciaio a Taranto, lo studio Lucchini arriva come un fulmine a ciel sereno. Riguarda un tema importantissimo: i disturbi del neurosviluppo nei bambini dai metalli pesanti, noti per essere neurotossici. Taranto è un territorio fortemente interessato dalla presenza di metalli pesanti. Per questo anche le virgole di questo studio sono importanti per tutela la salute dei più deboli.

Scusi professor Lucchini ma dove è uscito questo suo nuovo studio?
“Su Scientific Reports di Nature, il 10 maggio scorso”.

Ah recentissimo.
Per un contesto come quello di Taranto questa scoperta è fondamentale, perché lì abbiamo una ‘mistura’ di elementi nocivi nelle emissioni industriali e attraverso questo tipo di studi riusciamo a valutare le conseguenze sulla salute non solo dei singoli inquinanti, ma anche nell’interazione fra loro.

Professore ma questo studio è solo in inglese, perché la ricerca non è stata ancora tradotta in italiano?
Siamo ancora impegnati sull’analisi dei dati, per questo non c’è stata una comunicazione ufficiale.

Lo studio è anche firmato anche dal Dipartimento Salute della ASL di Taranto, che ha cofinanziato il progetto. Non crede sia necessario renderlo pubblico anche alla popolazione locale?
Ha ragione. La responsabilità è anche di noi ricercatori, che siamo immersi nei numeri e posticipiamo spesso la comunicazione, che invece è fondamentale tanto quanto i risultati dei nostri calcoli.

Non è la prima volta che uno studio fondamentale per la salute pubblica dei tarantini rimane non divulgato. Tra l’altro in un momento così delicato in cui vanno prese decisioni importanti per il territorio, sarebbe stato giusto darne adeguata diffusione. Veniamo alla ricerca. In pratica avete scoperto che se prendiamo il piombo e l’arsenico singolarmente osserviamo alcuni dei loro effetti nocivi, se però li valutiamo nella loro interazione ne spuntano molti altri. È così?
Esattamente. Tra l’altro i valori limite di esposizione di questi metalli si basano sui componenti individuali di una esposizione multipla. Si può quindi essere al di sotto di un certo livello protettivo di esposizione per un singolo componente, ma anche a quel livello ‘basso’ quel componente può produrre effetti nocivi se in compresenza ed in interazione con altro componente.

Traduco. Le emissioni di piombo e arsenico possono essere entro i limiti consentiti dalla legge, ma se sono presenti entrambi insieme fanno male comunque, anzi di più.
Si. Entrambi possono essere a livello ‘basso’ di esposizione ma la loro interazione sinergica può provocare effetti.

Insomma professore, non è propriamente un aggiornamento migliorativo della situazione sanitaria a Taranto.
Già! Si può essere al di sotto di un certo livello protettivo di esposizione per un singolo componente, ma anche a quel livello ‘basso’ quella sostanza può produrre effetti nocivi se è in compresenza ed in interazione con un altra.

La ricerca pubblicata su Scientific Reports di Nature il 10 maggio 2021 è un aggiornamento di analisi che lei conduce su Taranto dal 2012.
Esatto. Nel 2012 siamo partiti concentrandoci in particolare sugli effetti dell’esposizione ai metalli con proprietà neurotossiche sui bambini di età compresa tra i 6 e i 12 anni.

Avete diviso i bimbi in tre fasce: quelli che vivono a ridosso dell’Iilva, quelli ad una distanza media e infine quelli più lontani. In ciascun gruppo rientravano 4 scuole. Cosa è emerso?
Una differenza di 13 punti tra il quoziente d’intelligenza dei bimbi più vicini al siderurgico rispetto a quelli più lontani. Non solo, chi vive più a ridosso della fabbrica aveva una concentrazione di cadmio e arsenico nelle urine e di manganese nei capelli superiore a chi risiede lontano. La differenza di 13 punti di QI va intesa come ‘normalizzata’ per livello socioeconomico e intellettivo della madre, cioè a parità di questi fattori fra una zona e l’altra. Quindi dovuta solo al fatto di essere a breve distanza dalla emissione.

Quindi per dirla brutalmente, un bambino del quartiere Tamburi ha un quoziente intellettivo più basso di circa 13 punti rispetto a un coetaneo di Talsano (località distante dallo stabilimento siderurgico). Parliamo di bambini sani, non ammalati che però sulla base di test neuropsicologici per calcolare memoria, attenzione, ragionamento e concentrazione, mostrarono molte differenze.
Sì.

I risultati di questo primo studio iniziato nel 2012 però sono arrivati nel 2016. Poi nel 2019 siete tornati ad approfondire l’impatto neurocognitivo dovuto all’esposizione ai metalli sempre nei bambini tra 6 e 12 anni. Le scuole, 12 in totale, sono sempre le stesse. E cosa è emerso a distanza di sette anni dalla prima ricerca?
Se nel primo studio ci eravamo focalizzati sulle funzioni neuropsicologiche, quindi quoziente intellettivo, ma anche tendenza all’autismo, deficit di attenzione e altre forme di patologie infantili, successivamente abbiamo sviluppato meglio l’interazione tra fattori ambientali e socioeconomici, dimostrando che questi due, insieme, peggiorano ulteriormente le funzioni neurologiche.

Cioè in pratica se sei povero e contemporaneamente vivi in un quartiere inquinato, come Tamburi, sei ancora più esposto ad effetti nocivi delle emissioni.
Sì. Se nella prima ricerca era stata registrata una diminuzione di 13 punti del quoziente intellettivo nelle aree di Tamburi, rispetto a Talsano, nell’aggiornamento del 2019, la diminuzione cresce fino a 16 punti, questo perché nel corso degli anni si sono raffinati gli strumenti di analisi. Quindi questo studio evidenzia come le aree svantaggiate siano ad aumentato rischio di problemi neurocomportamentali oltre al rischio di minori capacità neurocognitive.

Nella ricerca voi scrivete: “L’area di studio è la città di Taranto, nel sud Italia, dove opera da molti decenni un vasto polo industriale che comprende uno dei più grandi produttori di acciaio in Europa, causando l’emissione di elementi tossici e molti altri composti chimici in un’ampia area circostante”. Però poi parlate sempre genericamente di “fonte di emissione”.
Abbiamo sempre suggerito la necessità di approfondire. Dovremmo essere il triplo e avere il triplo dei fondi. Non riusciamo a far tutto.

L’inquinamento da metalli riscontrato nel sangue dei bambini a quando risale?
Quello che gli indicatori di sangue mostrano è un dato relativo, perché riflette il livello di inquinamento attuale. Quando questi bambini sono nati è probabile è che i livelli di esposizione fossero più alti. Non sappiamo quale fosse l’inquinamento, ad esempio, quando si trovavano nella vita fetale, che rappresenta uno dei momenti di maggiore vulnerabilità. Anche per questo nel corso del tempo abbiamo iniziato a raccogliere i denti da latte e speriamo al più presto di poter fare uno studio specifico. I denti sono come gli alberi. Se fai una sezione laser trovi i cerchi concentrici. Andando a fare una microsezione dei denti da latte possiamo individuare i livelli di esposizione del passato. Il dente da latte inizia a crescere nelle prime settimane di vita intrauterina. È l’unico campione biologico che ci consente di andare indietro nel tempo.

La speranza è siano studi e ricerche utili a chi deve prendere decisioni e che non vengano invece ignorati e chiusi in un cassetto. Nella pubblicazione di Nature edizione 2021 i ricercatori valutano l’effetto neurocomportamentale dell’esposizione a oligoelementi tra cui piombo, mercurio, cadmio, manganese, arsenico e selenio e le loro interazioni. Il campione scelto è composto da 299 scolari residenti nell’area fortemente inquinata di Taranto. Le analisi sono state condotte su sangue intero, urina e capelli. Dei 6 metalli considerati, piombo e arsenico sono quelli che hanno dato spunti di riflessione più importanti. Il piombo nel sangue ha influenzato principalmente i problemi sociali, il comportamento aggressivo, l’esternalizzazione e i problemi comportamentali totali. L’arsenico nelle urine ha mostrato un impatto su ansia e depressione, problemi somatici, problemi di attenzione e comportamenti di violazione delle regole oltre a un’associazione significativa a diversi tratti psicologici riconducibili all’autismo. Si tratta di indicazioni precoci che non costituiscono la malattia ma sono importanti per fare prevenzione in fase precoce ed evitare la patologia. L’esatto meccanismo neurotossicologico attraverso il quale una miscela di metalli può portare a problemi comportamentali non è ancora chiaro e sono necessarie ulteriori indagini e prove su come le miscele di metalli e le interazioni tra le sostanze chimiche possono influenzare comportamento. Aumentata iperattività e tratti psicopatologici, compromissione del comportamento sociale e maggior rischio di autismo sono stati rilevati nei quartieri di Tamburi e Paolo VI, che si trovano a distanza ravvicinata rispetto alla fonte emissiva industriale.


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view post Posted on 27/6/2021, 10:13
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Tutti i documenti del processo Ilva




Domani, grazie al sostegno dei suoi lettori, sta seguendo udienza per udienza il processo “Ambiente svenduto” sugli anni della gestione Riva all'Ilva di Taranto. In questa pagina trovate tutti i documenti – udienze, perizie, ordinanze – utilizzati per la stesura degli articoli

Tutti gli articoliSostieni la nostra inchiesta

Domani sta seguendo con Michele De Lucia, udienza per udienza, il processo Ambiente svenduto sugli anni della gestione Riva (1995-2013) all'Ilva di Taranto. Tutto il materiale utilizzato per la stesura degli articoli è qui disponibile in versione integrale per consentire a ciascuno, se interessato, di costruire il proprio percorso di conoscenza di una delle vicende più gravi di sempre in materia di conflitto tra industria e ambiente.

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La lista dei documenti disponibili verrà arricchita durante la prosecuzione della nostra inchiesta che seguirà il processo fino alla sentenza di primo grado e oltre. Nella prima sezione sono riportati i link ai documenti alla base del processo. Nella seconda sezione ci sono i link ai verbali di udienza citati negli articoli. Nella terza sezione le precedenti sentenze a carico della gestione Riva per mobbing e per reati ambientali.

I documenti fondamentali

Le udienze

I precedenti



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Ilva, Giorgetti scarica ArcelorMittal:

«Si è finanziata non pagando i fornitori»


di Michelangelo Borrillo


«Èassolutamente plausibile, anzi sicuramente si è verificato: Arcelor Mittal ha finanziato il primo capitale circolante non pagando o rinviando i pagamenti dei fornitori». È un Giancarlo Giorgetti molto diretto quello che ha parlato — nella sua veste di ministro dello Sviluppo economico — di acciaio e siderurgia alla commissione attività produttive della Camera. «Non sempre — ha spiegato il ministro — l’azionariato straniero» che ha investito in Italia «spesso con una logica finanziaria e non industriale, si è rivelato all’altezza del processo di transizione in atto». Insomma, non le ha mandate a dire. Spiegando anche il perché: «Dopo una gara superata con successo, Arcelor Mittal, per i due anni successivi non ha ottemperato alle prescrizioni di gara e la gara è stata indirizzata su un binario morto. Ora gli attuali commissari stanno cercando di recuperare faticosamente quanto meno la cauzione, la garanzia prestata da Mittal».

Invitalia al 60% nel 2022

Fin qui il passato. Quanto al futuro — che sarà all’insegna del forno elettrico — Giorgetti è stato altrettanto chiaro: ad ArcelorMittal e al suo management — ha spiegato il ministro — il governo ha chiesto di «cambiare atteggiamento» nei confronti sia delle aziende dell’indotto sia nei confronti dei sindacati. Nel maggio 2022 — ha poi confermato il ministro — Invitalia salirà al 60% nella newco che, al termine del contratto di affitto, acquisirà gli asset dell’ex Ilva. «Allo stato attuale — ha ricordato Giorgetti — Invitalia detiene una quota del 38% del capitale di Acciaieria d’Italia Spa cui, in virtù dell’emissione di azioni speciali, corrisponde il 50% dei diritti di voto in assemblea». L’acquisizione degli asset dell’ex Ilva è soggetta a 3 condizioni: rilascio nuova Aia, accordo con i sindacati, dissequestro penale degli impianti.

Il piano industriale

Come detto, dal punto di vista industriale il futuro sarà all’insegna del forno elettrico. «A breve sarà presentato il piano industriale» per la transizione di Taranto verso la «decarbonizzazione», ha sottolineato ancora Giorgetti, e «su questo Piano industriale ci sarà uno sforzo collettivo per realizzare il processo di decarbonizzazione: il management scelto dal governo è adeguato ad affrontare questa sfida complessa». Il piano industriale, ha poi precisato il ministro «oltre all’accordo dei sindacati deve trovare anche l’accordo del Comune di Taranto e della Regione Puglia». Quindi, l’ennesimo avvertimento a Mittal: «Dovrà fare altri investimenti e dovrà partecipare insieme a Invitalia a questa attività di investimento, perché non è che lo Stato ci mette tutti i soldi e il privato aspetta di goderne i benefici».

Gli investimenti

E a proposito di soldi, il ministro ha precisato che «gli investimenti stimati» per sostenere il piano industriale per la transizione ecologica dell’ex Ilva «varia da 900 a 1.500 milioni di euro» a seconda delle scelte tecniche. Nel dettaglio, «il piano industriale legato all’accordo del 10 dicembre 2020 prevede la costruzione di un forno elettrico alimentato dal preridotto, Dri (Direct reduced iron), da un nuovo impianto realizzato e gestito da una newco a partecipazione pubblica. E gli investimenti stimati in funzione delle scelte tecniche variano, appunto, da 900 milioni a un miliardo e mezzo. Invitalia è stata incaricata di procedere alla costituzione della newco in modo di completare le analisi di fattibilità industriale ed economica finanziaria e ambientale del progetto». «La copertura finanziaria degli investimenti all’avvio della produzione del Dri — ha rilevato ancora il ministro — può essere assicurata alle risorse del Pnrr che alloca 2 miliardi di euro a valere sull’investimento 3.2, utilizzo dell’idrogeno in settori hard to abate». «Abbiamo chiesto — ha annunciato Giorgetti — di inserire nella prossima legge di bilancio un fondo per sostenere i processi di transizione ecologica del sistema industriale italiano. Il fondo verrebbe gestito dal Mise insieme al Mite e sarebbe finalizzato a supportare le imprese a partire da quelle energivore impegnate negli investimenti per la decarbonizzazione».


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view post Posted on 18/9/2022, 11:19
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La crisi dell’ex Ilva non passa mai:

dal caro energia alle accuse di operai e indotto fino alle bollette di Eni.

“Taranto va via via spegnendosi”


Le aziende che ruotano all'impianto di Taranto annunciando che a breve potrebbero fermarsi,
dopo aver già dilazionato i tempi per pagare le fatture. La stessa richiesta che Acciaierie d'Italia
ha fatto al Cane a sei zampe che vantava un credito di 285 milioni di euro.
Mentre le ferie dei dipendenti vengono trasformate in cassa integrazione
e si "terzializzano" le attività con 3mila operai a casa.
E adesso arriva l'autunno difficile: "Nella siderurgia è la realtà più preoccupante"


di Andrea Tundo

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L’ultimo grido d’allarme è arrivato dall’indotto, senza tanti giri di parole: “Mancano le commesse in quanto lo stabilimento va via via spegnendosi. Di questo passo tutte le aziende presto potrebbero fermarsi”. La scia di cahiers de doléances su Acciaierie d’Italia si è arricchita la scorsa settimana, inglobando anche gli industriali tarantini. Da un lato lamentano di aver già “sostenuto” l’azienda allungando i termini dei pagamenti e dall’altro sostengono che gli “sforzi” non vengono premiati: “Non vediamo alcuna prospettiva”, hanno messo nero su bianco in attesa del saldo delle loro fatture. L’acciaieria di Taranto, già nel mirino dei sindacati per una sterminata sequela di azioni intraprese dal management pubblico-privato che oggi guida il primo produttore in Italia, sta affrontando l’ultima bufera, quella legata al caro energia che sta soffocando un settore energivoro come la siderurgia. Il rischio di allontanare il momento del rilancio è sempre più elevato, così il governo è dovuto intervenire con l’iniezione di 1 miliardo di euro per sostenere la cassa ed evitare l’aggravarsi della crisi di liquidità.

I ritardi con le bollette Eni
L’ad Lucia Morselli era stata chiara: “La carenza è quella del circolante, che non nasce adesso ma c’è da due anni, quindi siamo limitati nell’acquisto delle materie prime e della produzione via via da monte a valle. Noi vogliamo un’azienda con un futuro e per averla serve finanza visto il costo dell’energia”. La fotografia del momento vissuto da Acciaierie d’Italia – oggi controllata da ArcelorMittal e partecipata da Invitalia – è nitida nella relazione finanziaria allegata alla semestrale di un’altra azienda statale, Eni. Al 30 giugno scorso, il Cane a sei zampe vantava “un credito commerciale per forniture di gas naturale al cliente (…) dell’ammontare di circa 285 milioni, di cui 98 milioni scaduti e ulteriori 80 milioni in scadenza al 15 luglio”. L’ex Ilva, insomma, non ha pagato le bollette e “reclama, tra l’altro, un allungamento delle dilazioni di pagamento”, si leggeva sempre nei conti del colosso degli idrocarburi di cui aveva già parlato l’Huffington Post. Nessuna minaccia di ‘spegnere la luce’, come avvenuto nel 2014, quando Eni dichiarò di essere pronta a interrompere le forniture. Uno scenario che comporterebbe il blocco delle cokerie e l’azzeramento della produzione.

Fiom: “Taranto la realtà più preoccupante”
Il problema, per il momento, è stato tamponato con un’apposita garanzia da 300 milioni firmata da ArcelorMittal, aveva spiegato Morselli: “Senza questa, avremmo dovuto ridurre al minimo la produzione, a un livello solo per proteggere gli impianti”. Il quadro, visto il caro bollette, è destinato ad aggravarsi nei prossimi mesi. Lo testimoniano i trend del mercato dell’acciaio e l’evoluzione dei costi per produrlo. “A gennaio i costi energetici per la produzione di una tonnellata di acciaio in un altoforno era di 720 euro. Ad agosto ce ne volevano 845. Costi destinati ad aumentare, se non ci saranno interventi per calmierare i prezzi”, spiega a Ilfattoquotidiano.it Gianni Venturi, responsabile nazionale siderurgia della Fiom-Cgil. “Quanto sta avvenendo e i problemi che l’ex Ilva si trascina dal passato più o meno recente rischiano di far peggiorare la situazione del gruppo. In un quadro problematico per tutto il settore, Acciaierie d’Italia è la realtà che ci preoccupa maggiormente”, sottolinea Venturi parlando di scenari “d’incertezza” per il mercato dell’acciaio nel prossimo trimestre e almeno in parte nel 2023.

E Mittal spegne gli altoforni in mezza Europa
Le mosse di ArcelorMittal in Europa raccontano bene il prossimo futuro. Il colosso che gestisce l’ex Ilva ha spento due altoforni in Francia, uno in Polonia e fermato gli stabilimenti di Gijon e Brema, rispettivamente in Spagna e Germania, dove già nelle scorse settimane la produzione era concentrata in alcune fasce orarie. I forni elettrici, ha spiegato il direttore generale Roland Bastian, vengono sostanzialmente fermati nei momenti della giornata in cui il prezzo dell’energia è maggiore. Lo scenario è tutto fuorché favorevole, perché il mercato globale dell’acciaio – dopo un 2021 con richieste record – ha una domanda debole nello stesso momento in cui i costi per alimentare gli impianti sono schizzati. I prezzi del mercato Ue, tra l’altro, sono in aumento. Un fattore che ha spinto a un incremento delle importazioni e i produttori, compresa ArcelorMittal, si lamentano per il costo aggiuntivo imposto sulle emissioni di CO2. La marcia al minimo degli altoforni di Acciaierie d’Italia sembra un’ipotesi lontana, almeno per il momento, anche perché Taranto viaggia già a ritmo ridotto.

Il caso delle ferie diventate cassa integrazione
Però da mesi ormai l’azienda prova a tagliare tutto il tagliabile. Il ricorso alla cassa integrazione è massiccio da anni: dal 28 marzo il ricorso agli ammortizzatori riguarda 3mila dipendenti, di cui 2.500 a Taranto. E negli ultimi mesi i sindacati hanno più volte stigmatizzato l’uso che si sta facendo della trasformazione in cigo dei giorni di ferie. È avvenuto anche ad agosto, nonostante l’esposto presentato il 20 luglio dai sindacati all’Ispettorato territoriale del lavoro e all’Inps. Un perseverare che le segreterie nazionale di Fim, Fiom e Uilm hanno definito una “provocazione dal sapore di sfida al governo e alle istituzioni”. Acciaierie d’Italia “sta superando ogni limite”, hanno attaccato le sigle metalmeccaniche. Uno “scellerato modus operandi” che “prosegue indisturbato violando leggi e contratto”. In estate, sottolineano i sindacati, oltre alle ferie “sono stati trasformati in cassa integrazione anche i permessi legge 104, i riposi maturati in seguito alle turnazioni e per donazione sangue”. Uno “scempio di enorme vastità” di fronte al quale Fim, Fiom e Uilm parlano di “derisione” dei ministri Giancarlo Giorgetti e Andrea Orlando, chiedendosi perché il governo “rimanga inerme”.

Le attività “terzializzate”
Le lamentele dei sindacati nelle ultime settimane hanno riguardato anche alcune attività “terzializzate” e assunzioni “in contrasto con l’accordo” firmato il 6 settembre di quattro anni fa, quando venne perfezionato il passaggio ad ArcelorMittal. Nelle aree Parco calcare e Forni a calcare dell’impianto di Taranto, ha denunciato il coordinamento provinciale dell’Usb, mentre i dipendenti sono in cassa integrazione “vengono terzializzate” le attività. In sostanza, personale di esercizio e conduttori dei mezzi, nonché addetti alla manutenzione e tecnici specializzati sarebbero di “aziende esterne” che “applicano contratti capestro” e “lavorano in condizioni al limite, anche per la sicurezza”. Il tutto, ha sottolineato l’Unione sindacale di base, con le ditte esterne che “subiscono i ritardi nei pagamenti”. Una vicenda che rientrerebbe in un “progetto mirato”. Quale? I mezzi di lavoro non vengono né manutenuti né sostituiti e quindi, ormai usurati, non possono essere utilizzati: un modo per “giustificare – ad avviso dell’Usb – l’assegnazione delle attività a nuove ditte dell’appalto, che costano meno e che vengono pagate in ritardo”.

“A Genova assunti fuori bacino”
La Rsu della Fim-Cisl dell’impianto di Genova ha invece recentemente sostenuto che l’ex Ilva ha assunto personale “in contrasto con l’accordo di programma” firmato da ArcelorMittal il 6 settembre 2018: “Le risorse da impiegare in azienda andrebbero in primis cercate all’interno dello stabilimento e in seconda battuta nel bacino di lavoratori di Ilva in Amministrazione Straordinaria ancora in attesa di una proposta di assunzione”. Nel 2018 la multinazionale dell’acciaio si era infatti impegnata ad assumere tutti i lavoratori finiti in Ilva in As entro il 2023: “Al momento ce ne sono ancora 230, quindi non capiamo per quale motivo si debba procedere con assunzioni esterne”, denunciano i metalmeccanici Cisl, oltretutto mentre si fa un “utilizzo ancora troppo alto di cassa integrazione spesso programmata con criteri errati”. La palla sta per passare al prossimo governo, l’ottavo a ritrovarsi il dossier sulla scrivania da quando, dieci anni fa, iniziò il lento declino del gigante d’acciaio. Una crisi che non passa mai.

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