La crisi dell’ex Ilva non passa mai:
dal caro energia alle accuse di operai e indotto fino alle bollette di Eni.
“Taranto va via via spegnendosi”
Le aziende che ruotano all'impianto di Taranto annunciando che a breve potrebbero fermarsi,
dopo aver già dilazionato i tempi per pagare le fatture. La stessa richiesta che Acciaierie d'Italia
ha fatto al Cane a sei zampe che vantava un credito di 285 milioni di euro.
Mentre le ferie dei dipendenti vengono trasformate in cassa integrazione
e si "terzializzano" le attività con 3mila operai a casa.
E adesso arriva l'autunno difficile: "Nella siderurgia è la realtà più preoccupante"
di Andrea Tundo
L’ultimo
grido d’allarme è arrivato dall’
indotto, senza tanti giri di parole: “Mancano le
commesse in quanto lo stabilimento va via via spegnendosi. Di questo passo tutte le aziende presto potrebbero fermarsi”. La scia di
cahiers de doléances su
Acciaierie d’Italia si è arricchita la scorsa settimana, inglobando anche gli industriali tarantini. Da un lato lamentano di aver già “sostenuto” l’azienda allungando i termini dei pagamenti e dall’altro sostengono che gli “sforzi” non vengono premiati: “Non vediamo alcuna prospettiva”, hanno messo nero su bianco in attesa del saldo delle loro fatture. L’acciaieria di
Taranto, già nel mirino dei
sindacati per una sterminata sequela di azioni intraprese dal management pubblico-privato che oggi guida il primo produttore in Italia, sta affrontando l’ultima bufera, quella legata al
caro energia che sta soffocando un
settore energivoro come la
siderurgia. Il rischio di allontanare il momento del rilancio è sempre più elevato, così il
governo è dovuto intervenire con l’
iniezione di
1 miliardo di euro per sostenere la
cassa ed evitare l’aggravarsi della
crisi di liquidità.
I ritardi con le bollette EniL’ad
Lucia Morselli era stata chiara: “La carenza è quella del
circolante, che non nasce adesso ma c’è da due anni, quindi siamo limitati nell’acquisto delle
materie prime e della produzione via via da monte a valle. Noi vogliamo un’azienda con un futuro e per averla serve
finanza visto il costo dell’energia”. La fotografia del momento vissuto da Acciaierie d’Italia – oggi controllata da
ArcelorMittal e partecipata da
Invitalia – è nitida nella relazione finanziaria allegata alla semestrale di un’altra azienda statale, Eni. Al
30 giugno scorso, il Cane a sei zampe vantava “un credito commerciale per forniture di gas naturale al cliente (…) dell’ammontare di circa
285 milioni, di cui
98 milioni scaduti e ulteriori
80 milioni in scadenza al 15 luglio”. L’ex Ilva, insomma, non ha pagato le bollette e “reclama, tra l’altro, un allungamento delle dilazioni di pagamento”, si leggeva sempre nei conti del colosso degli idrocarburi di cui aveva già parlato l’
Huffington Post. Nessuna minaccia di ‘spegnere la luce’, come avvenuto nel
2014, quando Eni dichiarò di essere pronta a interrompere le forniture. Uno scenario che comporterebbe il blocco delle
cokerie e l’azzeramento della produzione.
Fiom: “Taranto la realtà più preoccupante”Il problema, per il momento, è stato tamponato con un’apposita
garanzia da
300 milioni firmata da ArcelorMittal, aveva spiegato Morselli: “Senza questa, avremmo dovuto ridurre al minimo la produzione, a un livello solo per proteggere gli impianti”. Il quadro, visto il caro bollette, è destinato ad aggravarsi nei prossimi mesi. Lo testimoniano i
trend del mercato dell’acciaio e l’evoluzione dei costi per produrlo. “A gennaio i costi energetici per la
produzione di una
tonnellata di acciaio in un altoforno era di
720 euro. Ad agosto ce ne volevano
845. Costi destinati ad aumentare, se non ci saranno interventi per calmierare i prezzi”, spiega a
Ilfattoquotidiano.it Gianni Venturi, responsabile nazionale siderurgia della
Fiom-Cgil. “Quanto sta avvenendo e i problemi che l’ex Ilva si trascina dal passato più o meno recente rischiano di far peggiorare la situazione del gruppo. In un
quadro problematico per tutto il settore, Acciaierie d’Italia è la realtà che ci preoccupa maggiormente”, sottolinea Venturi parlando di scenari “d’incertezza” per il mercato dell’acciaio nel prossimo trimestre e almeno in parte nel
2023.
E Mittal spegne gli altoforni in mezza EuropaLe mosse di ArcelorMittal in Europa raccontano bene il prossimo futuro. Il colosso che gestisce l’ex Ilva ha spento due
altoforni in
Francia, uno in
Polonia e fermato gli stabilimenti di
Gijon e
Brema, rispettivamente in Spagna e Germania, dove già nelle scorse settimane la produzione era concentrata in alcune fasce orarie. I
forni elettrici, ha spiegato il direttore generale
Roland Bastian, vengono sostanzialmente fermati nei momenti della giornata in cui il
prezzo dell’energia è maggiore. Lo scenario è tutto fuorché favorevole, perché il
mercato globale dell’acciaio – dopo un 2021 con richieste record – ha una
domanda debole nello stesso momento in cui i costi per alimentare gli impianti sono schizzati. I prezzi del mercato Ue, tra l’altro, sono in aumento. Un fattore che ha spinto a un incremento delle
importazioni e i produttori, compresa ArcelorMittal, si lamentano per il costo aggiuntivo imposto sulle
emissioni di CO2. La marcia al minimo degli altoforni di Acciaierie d’Italia sembra un’ipotesi lontana, almeno per il momento, anche perché Taranto viaggia già a ritmo ridotto.
Il caso delle ferie diventate cassa integrazionePerò da mesi ormai l’azienda prova a tagliare tutto il tagliabile. Il ricorso alla
cassa integrazione è massiccio da anni: dal
28 marzo il ricorso agli ammortizzatori riguarda
3mila dipendenti, di cui
2.500 a Taranto. E negli ultimi mesi i sindacati hanno più volte stigmatizzato l’uso che si sta facendo della trasformazione in cigo dei
giorni di ferie. È avvenuto anche ad
agosto, nonostante l’
esposto presentato il 20 luglio dai sindacati all’Ispettorato territoriale del lavoro e all’
Inps. Un perseverare che le segreterie nazionale di Fim, Fiom e Uilm hanno definito una “provocazione dal
sapore di sfida al governo e alle istituzioni”. Acciaierie d’Italia “sta superando ogni limite”, hanno attaccato le sigle metalmeccaniche. Uno “scellerato modus operandi” che “prosegue indisturbato violando leggi e contratto”. In estate, sottolineano i sindacati, oltre alle ferie “sono stati trasformati in cassa integrazione anche i
permessi legge 104, i
riposi maturati in seguito alle turnazioni e per
donazione sangue”. Uno
“scempio di enorme vastità” di fronte al quale Fim, Fiom e Uilm parlano di
“derisione” dei ministri Giancarlo
Giorgetti e Andrea
Orlando, chiedendosi perché il
governo “rimanga
inerme”.
Le attività “terzializzate”Le lamentele dei sindacati nelle ultime settimane hanno riguardato anche alcune
attività “terzializzate” e assunzioni “in contrasto con l’accordo” firmato il 6 settembre di quattro anni fa, quando venne perfezionato il passaggio ad ArcelorMittal. Nelle aree
Parco calcare e
Forni a calcare dell’impianto di Taranto, ha denunciato il coordinamento provinciale dell’
Usb, mentre i dipendenti sono in cassa integrazione “vengono terzializzate” le attività. In sostanza,
personale di esercizio e conduttori dei mezzi, nonché addetti alla manutenzione e
tecnici specializzati sarebbero di “aziende esterne” che “applicano contratti capestro” e “lavorano in condizioni al limite, anche per la sicurezza”. Il tutto, ha sottolineato l’Unione sindacale di base, con le ditte esterne che “subiscono i ritardi nei pagamenti”. Una vicenda che rientrerebbe in un
“progetto mirato”. Quale? I mezzi di lavoro non vengono né manutenuti né sostituiti e quindi, ormai
usurati, non possono essere utilizzati: un modo per “giustificare – ad avviso dell’Usb – l’assegnazione delle attività a nuove
ditte dell’appalto, che
costano meno e che vengono pagate in ritardo”.
“A Genova assunti fuori bacino”La Rsu della Fim-Cisl dell’impianto di
Genova ha invece recentemente sostenuto che l’ex Ilva ha assunto personale “in contrasto con l’accordo di programma” firmato da ArcelorMittal il 6 settembre 2018: “Le risorse da impiegare in azienda andrebbero in primis cercate all’interno dello
stabilimento e in seconda battuta nel bacino di lavoratori di
Ilva in Amministrazione Straordinaria ancora in attesa di una proposta di assunzione”. Nel 2018 la multinazionale dell’acciaio si era infatti impegnata ad assumere tutti i lavoratori finiti in Ilva in As entro il
2023: “Al momento ce ne sono ancora
230, quindi non capiamo per quale motivo si debba procedere con assunzioni esterne”, denunciano i metalmeccanici Cisl, oltretutto mentre si fa un “utilizzo ancora troppo alto di
cassa integrazione spesso programmata con
criteri errati”. La palla sta per passare al
prossimo governo,
l’ottavo a ritrovarsi il dossier sulla scrivania da quando, dieci anni fa, iniziò il lento declino del gigante d’acciaio. Una crisi che non passa mai.
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