Alla ricerca del forum perduto

Alessandro Robecchi

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view post Posted on 3/1/2018, 09:18
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Anno dei Signori 2017: ci hanno guadagnato soltanto i miliardari

di Alessandro Robecchi

Giusto perché non è ancora finito il tempo dei bilanci sul 2017, annus horribilis, ecco un dato che può generare lo sfavillante ottimismo di cui ci dicono ci sia gran bisogno. Su con la vita! I 500 uomini più ricchi del pianeta nel 2017 si sono messi in tasca giusti giusti mille miliardi di dollari, con un incremento del 23 per cento rispetto all’anno prima e insomma, non facciamola lunga: si certifica, nell’anno dei Signori 2017, che per diventare ricchi la cosa migliore è essere già molto ricchi.
La forbice della diseguaglianza non solo non si chiude, ma si apre a dismisura, in un’annata d’oro per i miliardari. Il primo della lista, Jeff Bezos, il capo di Amazon, ha incrementato la sua fortuna del 34 e passa per cento, ora è vicino ai 100 miliardi di dollari (99,6, per la precisione, cioè per arrivare a 100 gli mancano solo 400 milioni di dollari, suggerisco di aprire una sottoscrizione). Lo inseguono Bill Gates e Warren Buffet, staccati di una manciata di miliardi (91 e 85). Il primo europeo è in sesta posizione, ed è quel Bernard Arnault, francese, che vende lusso a tutti, cioè di sicuro ai suoi 500 colleghi della classifica degli uomini più ricchi del mondo. Più ricchi che nel 2016, anno in cui erano diventati più ricchi che nel 2015, anno in cui… Potete tornare indietro un bel po': nei dieci anni della crisi è gente che non si è mai fatta mancare il segno più.
Ma sì, ma sì, sono classifiche che lasciano il tempo che trovano. L’indignazione generica del momento e poi basta.
Eppure – lo dico, male, un po’ rozzamente, perdonate – queste classifiche potrebbero mettere qualche idea in testa. Per esempio che lì dentro potrebbero annidarsi i famosi soldi che non ci sono mai. Ritornello costante di ogni governo più o meno o para-liberale (non solo italiano) quando si parla di servizi e diritti è “sì, sarebbe giusto, ma non ci sono i soldi”. Ora con tutti i soldi che ti fanno ciao ciao con la manina dalle classifiche (mille miliardi di dollari in più in un anno), direi che i soldi ci sono, invece, e pure tanti, e si sa anche chi li ha in tasca.
E’ noto il ritornello liberista, che sono in realtà due. Il liberista classico dirà che ci pensa il mercato e che se uno ha cento miliardi di dollari in tasca e un suo dipendente fa fatica a mettere insieme il pranzo con la cena, pazienza, che ci vuoi fare, è il mercato. Poi c’è il liberista moderno, smart e di sinistra, quello che dice uh, che bello i ricchi diventano più ricchi, e così anche chi lavora per loro sarà più felice. E’ un classico da Tony Blair in poi: la convinzione che se aiuti i padroni automaticamente aiuti anche i lavoratori. Una teoria interessante, che però cade un po’ a pera appena si guardano i numeri, perché i famosi padroni guadagnano mille miliardi in un anno, e i famosi lavoratori – pardon – una cippa di cazzo. Peggio: si sentono ripetere ogni giorno che i tempi sono cambiati e che devono cedere terreno e diritti. E quando la grande politica, i grandi leader mondiali (e anche i piccoli di casa nostra), parlano di diseguaglianze e di come combatterle, tendono a parlarne con Jeff Bezos e Bill Gates più che con quelli che spostano pacchi e scrivono software.
Gli anni della crisi, che hanno messo in ginocchio il ceto medio e proletarizzato tutti gli altri, in molti paesi e più che altrove in Italia, sono stati anni benedetti soltanto per i ricchi, coronati dal boom del 2017.
Naturalmente né la storia né la geopolitica, né l’economia si fanno con l’aritmetica, ma non è difficile fare due più due e capire che i soldi che mancano qui (al lavoro) sono finiti là (al profitto e al capitale), in misura eccessiva rispetto a qualsiasi decenza. Farsi rendere un po’ di quei soldi – e non soltanto in metafora – dovrebbe essere al primo punto di ogni programma che osasse chiamarsi “di sinistra”.

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view post Posted on 10/2/2018, 18:00
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La nostra politica ignora le vittime di Macerata: mica siamo in Germania

di Alessandro Robecchi

Non ci vuole una fantasia particolare, o chissà quale slancio romanzesco per vedere la scena, dunque si può provare senza nemmeno chiudere gli occhi. Frau Angela Merkel, saputo che un pistolero nazista sparacchia per la strada agli immigrati neri (a Dresda, o Francoforte, o Monaco, fate voi), fa la sua sacrosanta dichiarazione ai media, poi prende la sua borsetta da sciura Pina e va all’ospedale, stringe le mani ai feriti, chiede come va, incontra i medici e insomma in poche parole, senza dire proprio queste precise, comunica alla Germania e al mondo: io, io Repubblica Tedesca, sto dalla vostra parte, e non da quella di chi vi spara.

Già che ci siamo, spostiamo l’immaginazione un po’ più a ovest, in Francia. Ed ecco Monsieur l’Empereur Macron che mette su quella sua ghigna napoleonica, pancia in dentro, petto in fuori, scarpe lucide. Dichiara che questo in Francia non può succedere e va all’ospedale, dove stringe presidenzialmente la mano alle vittime. Chiede delle condizioni di salute dei feriti, poi ricorda al mondo che la Francia è vicina alle vittime e le aiuterà in ogni modo.

Sipario.

Ognuno veda le differenze con la situazione italiana, dove il testacoda è semplicemente da brividi. Non solo nessuna figura istituzionale è andata a visitare gli innocenti colpiti. Ma per due giorni, dopo che un pazzo (mah!) fascista si è messo a sparare per la strada come un qualunque terrorista dell’Isis, il dibattito si sviluppa su questi arguti temi. Uno: non si spara alla gente per la strada. Due: Beh, però, se uno è esasperato, dai, si può capirlo. Il tutto con decine e decine di sfumature, nuances, minuscoli slittamenti di colore. In poche parole: Salvini a reti unificate, un’accettazione profonda del suo discorso, il trionfo della narrazione fascio-leghista. Persino davanti a sei feriti innocenti in un raid terroristico, la vulgata prevalente sul tema dell’immigrazione è ancora quella di Salvini. Qualunque altro leader mondiale, anzi della Galassia, anzi dell’Universo, compaia in una foto mentre stinge la mano a quello che poi andrà in giro a sparare per la strada, avrebbe la carriera troncata. Salvini no, Salvini guadagna punti nei sondaggi.

Il capo del Pd, si legge sui giornali, “ha ascoltato con preoccupazione gli esperti di marketing elettorale”. Urca. Poi ha deciso per la linea morbida e la solita richiesta di sicurezza: più Polizia, più Carabinieri. E del resto la sua sudditanza all’impianto salviniano era già stata dichiarata con un “aiutiamoli a casa loro” da manuale. Silvio buonanima si è messo a rincorrere Salvini praticamente sostenendo che se la gente spara per strada agli stranieri è perché ci sono gli stranieri, e lui li manderà via. I cinque stelle hanno fischiettato e parlato d’altro, non essendo perfettamente al corrente di quel che pensa la loro base elettorale.

Intanto, le vittime dello jihadista della Lega, quelli che stavano andando a lavorare, o aspettavano l’autobus, o tornavano a casa e che sono finiti sparati da uno che leggeva il Mein Kampf, lo Stato italiano lo hanno incontrato. Poliziotti che sono corsi sul posto, guidatori di ambulanze, infermieri, medici, caposala che ti portano il brodino dopo l’operazione. Insomma hanno visto la parte migliore dello Stato, i gradini bassi, la manovalanza che ti ferma l’emorragia e ti prepara la flebo, i vituperatissimi “lavoratori statali”. Mentre i vertici, dello Stato, si sono comportati come davanti a un normale caso di cronaca nera, insomma hanno fatto di tutto perché il primo vero attacco terroristico in Italia scivolasse via come una specie di incidente stradale. Belle parole, fermi proclami, poi via, a fare gli aperitivi elettorali, con la paura di perdere qualche voto o la preoccupazione di sciacallare il meglio possibile per guadagnarne.

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view post Posted on 10/3/2018, 12:32
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Il Renzi Napoleone, a metà tra John Wayne e Alberto Sordi

di Alessandro Robecchi

C’è qualcosa di peggio delle sconfitte e dello scoramento, delle bocciature e degli schiaffoni. E’ un mostro che si avvicina quatto quatto, allunga la manona e ti ghermisce: è il mostro del Ridicolo.

Ora, naturalmente, si può mettere in satira tutto, ma sarebbe fin troppo facile, è il guaio che si presenta quando l’originale suona più grottesco della caricatura.

E così il Renzi della conferenza stampa delle (non) dimissioni è inarrivabile. Se si vinceva il 4 dicembre… Se Mattarella ci mandava a votare… la colpa è sempre altrove, e lui fa la parte eroica di quello che offre il petto al plotone d’esecuzione, peraltro composto di complici, purché spari a salve.

Insomma, il Renzi-Napoleone è stato qualche giorno all’isola d’Elba dopo il referendum perso, è tornato, ma ora deve andare a Sant’Elena, e prende tempo come quelli che ci mettono mesi a far la valigia.

Ma dicevo: il ridicolo. Nulla è peggio che mostrarsi in un modo e risultare in un altro. E in quella stanzetta affollata di microfoni succedeva proprio questo: uno che si presenta pugnace e combattivo, credendosi John Wayne con la pistola spianata, e che invece sembra a tutti un concentrato di albertosordismo: a me è Mattarella che m’ha fregato… Si vincevo er referendum sa ‘n do stavo io? Frignone. Ridicolo, appunto.

E ridicola, cosa subito evidente a tutti i maggiorenti del Pd che gli hanno tenuto il sacco fino a tre minuti prima, anche la sostanza politica. Riassumendo: ecco il grande Leader che si dimette, ma pretende di dettare la linea, di gestire la transizione, di andare alle consultazioni al Quirinale. Insomma, l’assassino si costituisce va bene, gesto nobile, ma prima chiede di nascondere il cadavere, cancellare le impronte, farsi un alibi, accusare qualcun altro. E’ il rilancio del perdente, è il pugile che dopo aver perso per ko – quando le luci sono spente, gli spettatori andati via, l’avversario già al ristorante a festeggiare – grida a nessuno: ora ti faccio vedere io!

Non sa, e qualcuno dovrebbe dirglielo, che un politico dimissionario che va a fare delle trattative verrà guardato come un garzone di bottega, e chiunque potrà dirgli in ogni istante: “Su, su, ragazzo, non perdiamo tempo, mi faccia parlare col titolare”.

Oggi Renzi è tutto questo. I grossi calibri del Pd fingono costernazione, come se non conoscessero il soggetto, e resiste qualche giapponese nella giungla. Intanto, si segnala la scomparsa dei burbanzosi ragazzotti renzisti, quelli dello storytelling, della narrazione, del “Noi sentiamo il pensiero di Matteo Renzi prima che accada” (sic). Quelli delle grandi strategie di comunicazione e di racconto, ignorantissimi sacerdoti della disintermediazione, studiosi di scienza della comunicazione che non hanno capito né la scienza né la comunicazione. Quelli che ad ogni mossa del capo ne cantavano le gesta e che ora, senza più gesta, senza più capo, non sanno che fare, divagano, fanno i teorici dopo esser stati praticissimi cantori del nulla.

Il ridicolo, però, non perdona e non ha pietà. Vedere Matteo Renzi illividito che lancia le sue dimissioni con l’elastico, che minaccia invece di chiedere scusa, è un contrappasso enorme per chi inventò e brandì verso i nemici la parola “rottamazione”. La conferenza stampa prendeva ad ogni minuto le sembianze di una presa d’ostaggi: me ne vado, ma voglio dettare la linea politica per quando me ne sarò andato. Poteva far più ridere di così? Forse sì: avesse chiesto documenti falsi, un elicottero e una valigia di dollari sarebbe risultato più simpatico, ma la sostanza non cambia. Come Silvio, anche Matteo ha una modalità sola: quella della vittoria arrogante. Davanti alla sconfitta non è attrezzato, si distrae, dimentica che tutti una volta nella vita possono dire: “Dovrai passare sul mio cadavere”. Tutti, tranne il cadavere.

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view post Posted on 15/3/2018, 12:15
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Sempre meno uguali, sempre più poveri: la vera analisi del voto

di Alessandro Robecchi

E’ un vero peccato che le pagine dell’economia, sui quotidiani italiani, siano così lontane da quelle della politica. E’ come fare un salto dal paese surreale al paese reale, come quando, usciti da teatro, si torna a casa, nella vita vera. All’inizio, per milioni di righe, ci becchiamo le contorsioni delle grandi manovre, le ipotesi, i retroscena. La crisi coniugale in atto nel centrodestra tra Salvini e Silvio Restaurato, o i Cinque stelle che mettono su una faccia istituzionale e fanno di tutto per mostrarsi i più democristianamente misurati. Del Pd, ormai sempre più simile a una rappresentazione de L’ispettore generale di Gogol’ non ha senso dire e contano soltanto il chiacchiericcio pettegolo e la spigolatura, al massimo la nuova cartografia delle correnti, con enormi mappe di zone misteriose dove campeggia la scritta Hic sunt renziones, e ci sono macerie. E poi c’è la più o meno raffinata analisi di cause e concause, cioè il “come siamo arrivati a questo punto”.

Ecco.

Per suggerire una lettura di primo livello, per chi ancora ha il novecentesco vezzo di collegare la politica ai bisogni reali delle persone, basterebbe dare un’occhiata anche veloce allo studio di Bankitalia su reddito, ricchezza, crescita e diseguaglianze. Qualche numeretto, qualche linea di grafico che va su e giù, ed ecco in due minuti il “come siamo arrivati fin qua”, spiegato bene.

Quasi 14 milioni di italiani vivono con meno di 830 euro al mese, uno su quattro. Sono più poveri i giovani (il 30 per cento ha meno di 35 anni), sono più poveri al Sud (40 per cento). Tra il 2006 e il 2016 (dieci anni in cui hanno governato un po’ tutti gli attori della pièce qui sopra, spesso intrecciati in amorosi sensi) il rischio povertà per i capifamiglia tra i 35 e i 45 anni è passato dal 19 al 30 per cento, che vuol dire che quasi una famiglia su tre teme lo scivolamento verso il proletariato, categoria numerosa di cui nessuno si occupa (nemmeno degni di 80 euro, per dire: troppo poveri).

L’indice Gini, quello che misura il tasso di diseguaglianza, è aumentato in dieci anni di un punto e mezzo. Questo significa che pochi ricchi sono diventati più ricchi e che molti poveri sono diventati più poveri. E questo è avvenuto con Prodi, Berlusconi, Monti, Letta e Renzi e tutto il cucuzzaro, con buona pace i quelli che dicono che “serve stabilità”. Più stabili di così si muore: la tendenza è dritta come un fuso e premia la diseguaglianza.

Si dirà: la crisi, le circostanze, il contesto. Bene. E poi si scopre (sempre Bankitalia) che quando arriva una ripresina non la vede nessuno: nel 2017 il Pil è salito del 1,5 per cento, mentre alle famiglie è arrivato solo lo 0,7, la metà. Si capisce quindi il comprensibile astio di chi, in condizioni di sofferenza, non solo si vede arretrare, ma osserva altri avanzare, toccando con mano un’ingiustizia palese e offensiva. Si collabora alla ripresa, si lavora con meno diritti, con meno salario, con meno sicurezze, e poi quando la ripresa arriva (la più piccola in Europa) non si vedono nemmeno le briciole. Fa un po’ incazzare, specie poi quando vedi un partito asserragliato nelle zone ricche del paese e delle città, magnificare le sue politiche “di sinistra”, snocciolare numeri trionfali (e spesso falsi) sul lavoro dimenticandosi i working poors, cioè milioni di cittadini che, pur lavorando, restano poveri, anzi lo diventano di più. Con la destra, con il centrosinistra, con i tecnici, con i rottamatori, con i posati statisti, la diseguaglianza economica nel Paese è aumentata senza soste, costante, implacabile.

Poi naturalmente uno può anche appassionarsi alla segreteria Martina, alle manovre di Salvini, alle tattiche di Di Maio o agli appelli di Mattarella: è come leggere la rubrica “strano ma vero” sulla Settimana Enigmistica, deliziosamente insignificante.

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view post Posted on 5/4/2018, 10:15
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Ieri la Lega evocava i Celti, oggi i campi militari della Wehrmacht

di Alessandro Robecchi

Scuseranno i lettori se mi porto avanti col lavoro e parlo del 25 aprile. Me ne dà occasione anticipata il sindaco leghista di Cologno Monzese, Angelo Rocchi che ha firmato (insieme all’assessora alla cultura Dania Perego) il patrocinio per una bella rievocazione da tenersi tre giorni prima della festa della Liberazione: un campo di fanteria nazista ai giardinetti. Motivazione etico-didattico: mostrare la vita quotidiana durante la guerra, a Cologno Monzese. Intenso programma (lo leggiamo su un manifesto che raffigura due soldati tedeschi, uno dei quali, poverino, ferito): “Preparazione del rancio con ricette d’epoca”, bello. “Cerimonia consegna onorificenze”, commovente. “Racconti, miti e leggende del Nord intorno al fuoco”. No comment. Il tutto in divisa, per la precisione quella della Wehrmacht. Organizzazione dell’accurata ricerca storica, un gruppo che si fa chiamare 36 Fusilier Kompanie (era un allegro club di volontari austriaci delle SS).

Insomma, spero vi sarà chiaro che la politica non c’entra niente: si tratta di rievocazione storica, con i nazisti en travesti che fanno i “banchi didattici” con i ragazzini e le famigliole.

Nessuno verrà fucilato e appeso agli alberi con il cartello “banditen”, nessuno verrà deportato per l’occasione in quanto ebreo o dissidente, nulla verrà requisito alle famiglie del luogo per preparare il rancio “con le ricette d’epoca”, e gli abitanti di Cologno Monzese, assistito allo spettacolo, potranno andare a fare la spesa invece che patire la fame. In soldoni: come rievocazione storica fa schifo, si può dire che è un falso.

Puntuale il doveroso corollario di polemiche e proteste, perché vedere simpatici buontemponi vestiti da nazisti che spiegano ai ragazzini cos’era Cologno durante la guerra mette in effetti un po’ i brividi.

Poi, come al solito è arrivata la toppa, un po’ peggio del buco. Il solito arrampicarsi sugli specchi: cambiata la foto del manifesto, quasi identico il programma (manca la “cerimonia consegna onorificenze”, un vero peccato per quelle croci di ferro che non verranno distribuite agli astanti). Il sindaco Rocchi (la sua amministrazione è un po’ in bilico per beghe interne, ma ha il fermo sostegno di Casa Pound, rappresentata dall’ex capogruppo leghista) ha detto che c’è polemica su tutto ciò che non piace alla sinistra e che ai giardinetti ci saranno anche la Croce Rossa, i partigiani eccetera. Insomma, dentro tutti, polverone totale, testacoda grottesco e figuraccia.

Mancando tre settimane al 25 aprile, la ridicola situazione di Cologno Monzese potrebbe servire per qualche riflessione. Quella là, la Liberazione, la Resistenza, fu una faccenda abbastanza seria e drammatica che chiudeva un periodo storico terribile, che non merita pagliacciate. Quanto all’ipotesi didattica invece sì, un intento c’è. E si rimanda ai tempi antichi della Lega bossiana, quella dell’indipendenza, dove si organizzavano ogni due per tre rievocazioni storiche di superiorità padana: divertenti ricostruzioni medievali anche in paesi nati negli anni Cinquanta. Che la Lega sia passata dai cortei in costume celtico ai campetti con le mostrine delle SS è un dato di fatto che dà da pensare.

A protestare (giustamente) con il sindaco di Cologno Monzese c’è anche il Pd milanese, per dire, quello che l’anno scorso, il 25 aprile, si presentò in piazza con magliette blu, bandiere blu e cartelli blu con nomi improbabili (persino la collaborazionista Coco Chanel). Chissà, forse l’annuncio di un campetto nazi alle porte di Milano gli ha fatto recuperare lucidità, speriamo. Ma speriamo soprattutto che lassù a Cologno nessuno si faccia male, si scotti col rancio, o resti impigliato nel filo spinato. Il sindaco invita alla festa le famiglie e gli stranieri, che così impareranno la nostra storia, ma un po’ per fiction, senza rastrellamenti.

Il blog di Alessandro Robecchi
 
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view post Posted on 18/5/2018, 07:26
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la serpe in seno al forumismo

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Di certo i morti sul lavoro non sono un tema del contratto di governo

di Alessandro Robecchi

Quindici stragi di Piazza Fontana, tre stragi di Ustica, tre stragi di Bologna. Contateli come volete, in soli quattro mesi e mezzo i morti sul lavoro in Italia sono stati più di 250. Alla fine dell’anno si supererà di molto quota mille, cifre da guerra, da bombardamento a tappeto. La colata incandescente, la lastra d’acciaio, il gas venefico, il muletto che si ribalta. Il più giovane: 19 anni, il più vecchio: 59. Se fosse un popolo, quello dei lavoratori italiani, avremmo le risoluzioni dell’Onu, le diplomazie in fibrillazione, i grandi leader che lanciano appelli per, come si dice in questi casi, “fermare il massacro”. E invece sulle vittime da lavoro in Italia si dice poco e niente: i titoli di cronaca, il balletto dei numeri, qualche riflessione ad ampio raggio che lascia il tempo che trova. Ed è un tempo di merda.

Statistiche: il più dodici per cento rispetto all’anno passato si spiega quasi sempre con la sospirata ripresa: si moriva un po’ meno perché si lavorava un po’ meno, ora sì che si ragiona, finalmente! Italia riparte!

Poi si passa ai perché: i controlli sono pochi, pochissimi, spesso inconcludenti (e nonostante questo il 60 per cento delle aziende controllate nell’edilizia risulta non in regola), il lavoro è più lungo e più scomodo, lo straordinario, quando non il cottimo, è la norma. La ricattabilità dei lavoratori – avendo il Jobs act legalizzato il demansionamento e facilitato i licenziamenti – è aumentata a dismisura: dire di no al padrone è diventato più difficile. Il caleidoscopio di appalti e subappalti ha fatto quasi scomparire del tutto i corsi sulla sicurezza.

Poi ci sono i motivi, per così dire culturali della questione. La retorica modernista per cui “gli operai non ci sono più” (anche se ne muoiono tre al giorno), le loro parole sono risibili e antiche: “lotta”, e giù a ridere; “sciopero”, e giù a pontificare col ditino alzato che non siamo più nel Novecento. Il sindacato come un sempiterno ostacolo alle sorti luminose e progressive del mercato, che meno lo regoli e meglio è, la costante mortificazione del lavoro operaio (ma anche contadino: si muore parecchio anche lì), considerato démodé e residuale, anche se siamo la seconda manifattura d’Europa.

Mischiate bene e avrete il cocktail micidiale che produce così tante vittime, aggiungete molte parti di ideologia liberista, quella storiella furba che se aiuti l’impresa (sussidi, sconti sui contributi, agevolazioni fiscali) aiuti anche i suoi lavoratori, cosa millemila volte smentita dai fatti, eppure ancora narrazione dominante.

Vista da quest’Italia dei cantieri e delle fabbriche, dall’Italia che va ai funerali dei suoi padri, mariti e fratelli caduti sul lavoro, l’Italia in primo piano in questi giorni – quella dei tavoli, delle trattative, del Pirellone, del balletto dei nomi, dei corazzieri davanti alla porta – sembra un luogo surreale. Di più, uno schiaffo, uno sberleffo.

Anni di ottundimento, di derisione delle lotte dei lavoratori (quelli che mettono il gettone del telefono nell’iPhone, questa non la scorderemo mai), di criminalizzazione dello sciopero (“Ecco! Scioperano al venerdì!”), di anarchia di mercato (“Troppi diritti! Mano libera!”) ci hanno portato qui: poco lavoro, cattivo lavoro, e puoi anche lasciarci la pelle.

Mentre osserviamo il soave balletto della politica da prima pagina, una cosa è chiara: non verrà da lì il cambiamento. Non verrà dalle riforme scritte e bilanciate con il manuale Cencelli delle convenienze. Se cambierà qualcosa sarà perché il conflitto riprende il suo posto nella dialettica politica del paese. In soldoni (lo dico male): sarà perché la gente si incazza e il tappo della pentola salta per troppa pressione. Speriamo presto, speriamo subito: è una cosa più urgente del nome del prossimo esimio professore che guiderà il governo.

Il blog di Alessandro Robecchi
 
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view post Posted on 1/7/2018, 08:47
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In cucina o di pomeriggio. Così Renzi entrerà (di nuovo) in casa nostra

di Alessandro Robecchi

A seguito delle indiscrezioni pubblicate dall’organo ufficiale del renzismo (Maria Teresa Meli) e riprese da molti giornali, secondo cui Matteo Renzi starebbe tentando il passaggio alla carriera televisiva, Il Fatto Quotidiano, è in grado di anticipare alcuni dei progetti allo studio nella cantinetta di Rignano sull’Arno, progetti complessi che prevedono anche la nascita di un giornale dedicato alle gesta catodiche dell’ex leader: Sorrisi e Cazzoni Tv. Ecco l’elenco.

Chef Matteo.Il fascino delle trasmissioni in cui si cucina, si mangia, si mostrano le eccellenze italiane sottoforma di rape e fagioli rarissimi è forte. Renzi pare deciso a ritagliarsi il ruolo del conduttore, ma anche del capo cuoco, ma anche del produttore, affidando alla famiglia l’approvvigionamento di materie prime, fatturate a parte. Il programma sarà strutturato con un lungo monologo del conduttore, la presentazione dei concorrenti, un altro lungo monologo del conduttore, l’inquadratura dei piatti (30 secondi) e una lunga conclusione del conduttore. Qualche problema tecnico pare turbare la messa in onda perché alcuni autori hanno deciso di abbandonare il progetto. Matteo non si è scomposto: “Via, via, andate a fare il vostro programmino del due per cento, noi faremo il quaranta”.

Miss Italia Dem. Non indifferente al fascino femminile, Renzi potrebbe condurre un concorso di bellezza che affianchi alle doti fisiche delle concorrenti anche altre qualità come affidabilità politica, culto del capo, obbedienza. I migliori tweet di Anna Ascani e Alessia Morani verranno mostrati in sovrimpressione. Il programma sarà itinerante e toccherà tutti i comuni conquistati dal Pd nelle recenti amministrative, cioè sarà di massimo due puntate. Già in lavorazione la serata di Arezzo, con una sicura vincitrice – Maria Elena Boschi – che porterà alla fine la fascia di Miss Stasulcazzo.

Sbam, il piacere della sconfitta. Affabulatore nato, divulgatore e costruttore di storytelling, Matteo Renzi ama raccontare i misteri dell’universo e i segreti naturali del nostro pianeta. Nella prima puntata, già in lavorazione, Orfini si occuperà del millenario enigma dei cerchi nel grano (“Dove sono finiti i nostri elettori?”. “Boh, cerchi nel grano”), mentre Scalfarotto sarà inviato a studiare le famose linee di Nazca che pare contengano un’analisi della sconfitta del Pd (infatti nessuno le ha ancora decrittate e a Nazca aspettano un congresso da 4000 anni). Non mancherà la solita domanda dei programmi di divulgazione scientifica: esistono gli alieni? E se esistono, sono stati almeno una volta alla Leopolda?

Coi vostri soldi. Consapevole che l’economia è un caposaldo della nostra società, Matteo Renzi pare deciso a svelarne i meccanismi anche ai profani, tra i quali spiccano gli esperti economici del Pd. In questo caso non ci sarebbe problema di autori recalcitranti, perché i testi sarebbero, come nel caso del Jobs act, affidati al centro studi di Confindustria. Qualche difficoltà nel reperite gli ospiti: Marchionne e Farinetti hanno declinato l’invito con un semplice sms alla produzione (“Renzi chi?”). Il pubblico in studio sarà composto da giovani millennials, pagati 0,25 centesimi ad applauso (massimo dieci applausi per non sforare il budget).

Pomeriggio Renzi. L’impegno di una striscia quotidiana che si occupi di vicende quotidiane, squartamenti, corna, delitti, casi umani, funerali e battesimi reali, matrimoni vip e guarigioni miracolose non spaventa Matteo Renzi. La luce bianca sparata in faccia, l’atteggiamento finto-umano del conduttore e i selfie con gli ospiti faranno il resto. Nella prima puntata, la cui scaletta è già definitiva, è prevista l’intervista a un imprenditore schiantato dal dolore perché costretto a licenziare i suoi operai, e del suo gesto umano di occuparne due o tre, pagati in nero, per lucidargli la Ferrari.

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view post Posted on 19/7/2018, 14:01
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Sparare alle mogli: con la riforma di Salvini sarà legittima difesa

di Alessandro Robecchi

C’è grande attesa nel Paese per l’avviarsi (questa settimana) dell’iter della riforma della legittima difesa, e come su tutto quanto (immigrazione, giardinaggio, economia, lavori all’uncinetto, scienza aerospaziale, cucina vegana, creme solari, prodotti dop, miele biologico), la linea la detta il ministro dell’Interno Matteo Salvini. Sono i vantaggi di chi non lavora mai: può avere molti hobby. E’ noto il pensiero di Salvini: troppe rogne, processi, spese per avvocati, per chi ammazza a fucilate qualcuno che gli sta rubando un soprammobile in salotto. La lobby dei produttori e venditori di armi è naturalmente favorevole: un milione e 398.920 licenze per porto d’armi sembrano poche per un paese di sessanta milioni di abitanti, e l’Italia resta in posizione di inferiorità rispetto al Texas, dove sono armati anche gli embrioni, o luoghi pacifici come la Libia. Ecco alcune norme di buon senso che la riforma dovrebbe recepire.

Sparare ai ladri in casa. Naturalmente si potrà sparare ai ladri in casa. Una norma un po’ ambigua perché non si capisce a casa di chi. “Ma a casa dei ladri!”, chiarisce subito Salvini. In pratica, il bravo cittadino italiano con un vicino rumeno, o straniero in generale, potrà bussare, aspettare che qualcuno apra e poi freddarlo sul ballatoio. Si tratta di un criterio allargato di legittima difesa, interpretato in chiave meno restrittiva. Se poi risulterà che il morto non era un ladro ma un’onestissima persona, l’imputato non avrà diritto al rimborso del proiettile, che dovrà pagare coi suoi soldi. “Norma troppo punitiva – dice Salvini – la cambieremo”.

Bonus pistole. Sull’esempio del bonus cultura, verranno consegnati ai giovani, al compimento del diciottesimo anno, dei soldi per acquistare armi da fuoco. C’è chi è scettico, perché non è facile mettere in campo controlli e verifiche. “E se poi scopriamo che con quei soldi si comprano un libro? – dice Savini – Norma da rivedere”.

Poligono diffuso. L’aumento del possesso di armi da parte di onesti cittadini che vogliono difendersi dalla criminalità sparando ai bambini che recuperano il pallone finito in cortile necessita un minimo di preparazione balistica. Ma istituire poligoni di quartiere (o di caseggiato, per le zone più popolose) potrebbe essere costoso. La riforma pensata da Salvini vorrebbe ribaltare il concetto e combattere la burocrazia. Basta iscrizioni, domande in carta da bollo, verifica dei documenti. Per allenare la mira, basterà aggirarsi nei dintorni di un campo rom, o di qualche centro per stranieri richiedenti asilo.

Ripresa economica. I benefici di una riforma che liberalizzi l’uso delle armi, come piacerebbe a Salvini e a quelli che le fabbricano, sono anche economici. A parte l’impennata di interventi nella sanità privata (si calcola che il numero di quelli che si sparano in un piede pulendo la Colt aumenteranno del 334 per cento), si prevedono ottime performance per il settore pompe funebri, fioristi, necrologi. La riforma avrà poi un effetto volano: sapendo che lo aspettano armato, anche il ladro di polli comprerà un’arma, innestando un circolo virtuoso per cui tra dieci anni uno dovrà andare in giro con portafoglio, telefono, chiavi della macchina, chiavi di casa, e Glock calibro nove. Torna il borsello.

Prima la famiglia. E’ nota la passione di Salvini per i valori famigliari, infatti ha avuto due o tre famiglie, piazzando sempre mogli e compagne in buoni posti di lavoro grazie alla politica. La riforma tanto caldeggiata guarda dunque alla famiglia con un occhio di riguardo: ammazzare la moglie, la fidanzata, la ragazza che vuole lasciarti, sarà più agevole e non si dovrà più ricorrere a mezzi primitivi come lo strangolamento. “L’ho ammazzata perché non voleva che mi sputtanassi tutto lo stipendio con poker e scommesse”, dopotutto, è legittima difesa.

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view post Posted on 14/11/2018, 15:29
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Stampa, il vero insulto è essere pagati sei euro ad articolo

di Alessandro Robecchi

Quando arrivi a prendertela con i giornalisti vuol dire che hai esaurito tutte le altre scuse, e “lasciateci lavorare”, e “la gente non capisce”, eccetera eccetera, e sei arrivato finalmente al bar, dove vale tutto. Sia messo a verbale che per un politico attaccare la stampa è sempre un mezzo autogol e un segno di debolezza. E questo senza addentrarsi nella qualità dell’insulto: “infimi sciacalli” (Di Maio) non è granché, mentre “puttane” (Di Battista) è sgradevole anche per motivi che coi giornalisti non c’entrano niente. Si prova una certa nostalgia per le “iene dattilografe” di D’Alema, che sposava irridente perfidia e raffinatezza stilistica, e questo per dire che si peggiora ma non si inventa niente.

La categoria è balzata su come una bestia ferita, cosa che fa periodicamente con più o meno convinzione. Si è visto vibrare orgoglio professionale, alcuni hanno fotografato il tesserino per postarlo sui social, e in generale la risposta all’attacco scomposto dei 5stelle è stata piuttosto veemente. Insomma, giù le mani dalla libera stampa. Mi associo pienamente. Anche se a tratti nella partita non si distinguevano più due cose un po’ diverse tra loro: la difesa della libertà di stampa e la difesa di una corporazione.

Poi, quando sarà passato lo tsunami di indignazione, si potrà magari discuterne meglio, a partire da due o tre cosette.

La prima riguarda la politica: dire un giorno che i giornali sono morti e non contano più niente, e il giorno dopo attaccarli come potere ostile è una palese contraddizione (comune a tutta, o quasi, la politica). Significa che il famoso disegno culturale dell’intermediazione (il mito della rete per i grillini, ma in generale i social per tutta la politica) non sta funzionando granché. Renzi dettava la linea a colpi di tweet, ma intanto prendeva la Rai e curava i rapporti con i giornali, Salvini fa il fotomodello di se stesso e i media lo adorano. Nomine e promozioni sono terreno di battaglia. Insomma, disintermedia qui, disintermedia là, ma il parere della stampa ai politici interessa ancora parecchio.

Come dicono quelli bravi – ma sarà per consolarsi – bisogna trasformare le disgrazie in opportunità. Sarebbe bello che i giornalisti italiani, così bruscamente insultati, sfruttassero questo loro sussulto d’orgoglio e ne usassero la spinta propulsiva per riflettere un po’ su se stessi, sulla professione, sulle sue modificazioni. I dati sul precariato nella categoria fanno spavento, si scrive per otto euro, per cinque euro al pezzo, i giornalisti sotto i quarant’anni arrivano in media a sei-settecento euro al mese, c’è un vastissimo lumpen-proletariatdel lavoro intellettuale, che diventa sfruttamento e ricatto professionale. I giornalisti garantiti da un contratto e da uno stipendio decoroso sono ormai una minoranza, la norma è una specie di McDonald dell’informazione dove si friggono notizie a basso costo.

Poi, come se non bastasse, tutti i giornalisti hanno questo destino infame: sentirsi spesso dare lezioni di giornalismo da gente che non ha mai messo piede in una redazione, che non ne sa niente. Ma loro, i giornalisti, che nelle redazioni ci stanno, che conoscono la macchina e sanno come funziona, dovrebbero accorgersi che queste forme di sfruttamento, che allungano quasi a vita l’età del precariato, nuocciono alla professione, nella sua dignità, anche più dell’insulto del politico di turno in piena crisi di nervi.

“Perché non mi scrivi una bella pagina sulla meritocrazia? Te la pago sei euro e cinquanta!”. Ecco una buona metafora di come sta messo oggi il giornalismo italiano, e si può valutare se la sua perdita di qualità non sia dovuta anche a questo. Nel dibattito sulla stampa offesa, tutto questo non c’è: solo insulti, allarmi e grida d’orgoglio ferito, politici isterici, giornalisti indignati e morta lì. Peccato.

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view post Posted on 21/11/2018, 16:28
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Gilet, migranti, socialisti: quanto sono poetiche le proteste degli altri

di Alessandro Robecchi

Incredibile quanto ci piacciono le rivolte quando le fanno gli altri, una passione, proprio. Leggendo le cronache dalla Francia, anche quelle più “legge & ordine”, traspare una sorta di invidia non detta, di ammirazione sottaciuta, come un’inconfessabile stima per una mobilitazione così spontanea e tenace. Non tanto per gli obiettivi della protesta dei gilets jaunes (che restano molto francesi e assai trasversali), quanto per la loro tenacia. Ci piace insomma il pensiero dei francesi che si incazzano, come da canzone del Maestro, ma ogni volta quel che si ammira è che lo fanno seriamente. Già capitò ai tempi del grande sciopero dei mezzi pubblici, quando si magnificò la solidarietà dei parigini, pur azzoppati nel loro spostarsi, con i lavoratori in lotta. Non scioperanti e utenti divisi, ma cittadini uniti, si disse, cronache che scaldavano il cuore, mentre se succede qui, anche un minimo sciopero dei treni, ecco le grida di allarme sull’Italia “paralizzata” e la prepotenza sindacale.

Insomma, ci piacciono molto la protesta, la rivolta e persino la sommossa (specie se ceto medio-oriented), a patto che non succeda qui, e se un qualsiasi movimento di protesta si azzardasse qui da noi ad occupare strade e autostrade o depositi di carburante, si griderebbe – destra, sinistra, sopra, sotto – all’eversione (non a caso il decreto sicurezza contiene gravi inasprimenti di pene per blocco stradale, per esempio).

E’ un bizzarro strabismo politico-culturale, tutto italiano, molto ipocrita, che abbraccia il pianeta. La marcia dei migranti dall’Honduras agli Stati Uniti è un altro caso di scuola. Una migrazione in piena regola, che riscuote ammirazione e pressoché unanimi consensi, almeno a sinistra. E’ una cosa biblica, contiene molto Garcia Màrquez, migliaia di persone che vanno a piedi, coi trolley e le valigie, i bambini e i nonni fino a Tijuana, e lì cominciano a bussare al muro per avere una vita migliore. Muy sentimiento, eh! Se invece succede qui la musica cambia un po’, niente più flauti andini e canzoni di protesta, cominciano i cori del non-possiamo-accoglierli-tutti, gli aiutiamoli-a-casa-loro (cfr: Salvini), e aiutiamoli-davvero-a-casa-loro (cfr: Renzi). Insomma, gli opposti minnitismi, e magari, come già si fece, accuse di “estremismo umanitario” a chi crede nell’accoglienza e magari la pratica. Ci piacciono i migranti degli altri, insomma, pieni di rimandi letterari, soddisfano un nostro bisogno di etica e ci ricordano vagamente cosa sarebbe la giustizia sociale. Perfetti, finché stanno dall’altra parte del mondo, fuori dai coglioni.

Ci piacciono molto anche i socialisti degli altri. Il caso di Alexandria Ocasio-Cortez conferma in pieno. Con grande attenzione, i media italiani hanno seguito l’ascesa della giovane democratica, fino all’arrivo al Capidoglio di Washington. Hanno persino lodato il suo dichiararsi esplicitamente socialista. Che brava, che coraggio, bene! Che bella la copertina del New Yorker! Tacendo però il dettaglio che se qui, qui da noi, emergesse una voce dichiaratamente socialista – più diritti economici, meno rendite, meno profitti, più reddito da lavoro più diritti agli immigrati, più scuola pubblica – verrebbe trattata come un appestato, affetto da novecentismo, bacucco, via, sciò, come si permette, lasci fare ai mercati, che la sanno lunga. Se dici “socialista” a New York sei un’esotica benedizione per i tempi nuovi che verranno, ma se lo dici qui ti lapidano perché “non aiuti le imprese” e qualunque idea di conflitto sociale pare obbrobriosa.

E’ uno strabismo anche sentimentale, perché, insomma, almeno a sinistra piace ancora l’impianto, chiamiamolo così, ideal-romantico della rivolta e della reazione all’ingiustizia, dei deboli che si ribellano al potente, ma solo in cartolina, e più è spedita da lontano e meglio è.

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view post Posted on 9/5/2019, 08:18
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Matteo, lo sceriffo di Nottingham che chiama le guardie

di Alessandro Robecchi

Finalmente c’è della verità nel faccione finto giocoso di Salvini Matteo, capo della Lega, vicepresidente del Consiglio, ministro dell’Interno, eterno comiziante, inviatore di bacioni e ometto forte. Accade quando qualcuno gli si mette a fianco sorridente come lui, gli chiede un selfie, e poi dice qualcosa di vero. Come la ragazza di Salerno (“Non siamo più terroni di merda?”), come l’altro giovane che gli chiede conto di 49 milioni spariti, puff; come il quindicenne sardo che fece lo stesso e molti altri, comprese Gaia e Matilde, che dopo averlo lusingato (“Salvini! Un selfie!”) si baciano nell’inquadratura, con lui, il federale, che fa la faccia del tonno appena pescato. Con quella faccia è finito anche sulla Cnn, che il mondo sappia, ecco.

I reperti elettronici giunti fino a noi in forma di foto e video, sono quelli sopravvissuti a perquisizioni e identificazioni degli autori (sicuramente molti altri non hanno passato i controlli), e fa ridere sentire lo staff di Salvini gridare mentre il video sfuma: “La Digos, la Digos!”. Insomma, lo sceriffo di Nottingham che chiama le guardie, altro che “uno del popolo”, altro che “uno di noi”, siamo al gerarchetto che chiama la milizia perché l’hanno preso in giro.

Probabile che spunteranno altri video, altri selfie. Oppure che – prudenza – Salvini sarà costretto ad abbandonare la pratica di usare i cittadini come comparse plaudenti della sua narrazione tossica: dannazione, non tutti battono le mani, dannazione, non tutti lo osannano come quelli che gli fanno il baciamano (ad Afragola, con tanto di inchino in ginocchio), dannazione, il giochetto si è sporcato, forse addirittura rotto.

Siccome sta diventando prassi diffusa, mettersi accanto a Salvini e sbertucciarlo come fosse un concorrente di Ciao Darwin, tipo umano a cui in effetti somiglia, sarà interessante vedere le contromisure. La prima, come da ricchissima tradizione, è il vittimismo. Così da qualche tempo Salvini non si limita a parlare ai suoi, ma non perde occasione per attaccare i nemici. Se i “comunisti” (e i “centri sociali”) fossero numerosi come li vede Salvini, saremmo in Corea del Nord. Ma la risposta secondo cui o stai con lui o sei “comunista” (uh!) è deboluccia e zoppicante. Così mister 49 milioni batte su un tasto vecchio, posta sui social le scritte sui muri contro di lui, lamenta di ricevere pallottole e minacce (ma dove le riceve, che al Viminale non va mai?), insomma gioca il gioco vecchio del chiagni e fottidei potenti, secondo tradizione. Con una mano fa il duro, con l’altra, come si dice a Milano (lui capisce la lingua) fa il “piangina”. Ma essendo, come si conviene ai capi della truppa, sempre circondato da forza pubblica ai suoi ordini, bisogna beffarlo con l’inganno, rivoltargli contro la sua stessa comunicazione: bacioni!

Immaginiamo le riunioni dello staff. Chiamare le guardie come i vecchi re offesi dai sudditi che ridono funziona, ma non può durare. Fischiare un ministro è lecito – ancora e per fortuna – anche se le intimidazioni sono quotidiane: signore prese in malo modo e portate in questura, gente identificata con modi bruschi, persino qualcuno denunciato per avergli urlato “fascista!”. Insomma, repressione di pensiero e di parola, vietato disturbare, non più il “o con noi o contro di noi”, ma “o con noi o chiamo la Digos”, una cosa un po’ à la Ceausescu.

Piano piano, la paccottiglia propagandistica si sfalda e si mostra ridicola, fino al culmine della tradizione paracul-mediatica: la visita a Padre Pio, a cui (e te pareva!) “chiede consiglio”, e dove è andato a “pregare per Noemi”, la bambina colpita da un proiettile vagante per strada, a Napoli. Cioè la bambina che se avessimo un ministro dell’Interno invece di un piazzista porta-a-porta, comizio-a-comizio, ora sarebbe all’asilo con le sue amichette.

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view post Posted on 23/12/2020, 11:07
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la serpe in seno al forumismo

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Natale a Rignano. Si tratta su tutto, dai canditi a come si aprono i regali

di Alessandro Robecchi

Che sono tempi bui lo abbiamo già detto, vero? Che non sarà il solito Natale lo abbiamo letto da qualche parte, giusto? Bene, metà del lavoro è fatto. Ora passiamo a trattare l’argomento “Feste-in-pochi-e-in-zona-rossa”, con piccoli accorgimenti e trucchi per passare in armonia i giorni più santi dell’anno, quelli in cui si celebra la gloria del bambinello. No, non quello là che pensate voi, un altro bambinello, quello di Rignano.

Le settimane della vigilia sono state agitate e ricche di discussioni. Si faceva l’albero, e lui minacciava di fare il presepe, in subordine, ok, fare l’albero ma che non sembri un cedimento! Vuole scegliere le luci, poi appendere almeno una pallina ma non si può mettere il puntale finché non c’è la Bellanova. Alla fine, dopo estenuanti tira e molla, si è fatto l’albero, lui ha messo una pallina gialla sul terzo ramo dal basso e ha rilasciato gioiose dichiarazioni in cui “Senza di me sarebbe stato un Natale senz’albero!”.

Questo il pregresso. Ma veniamo al magico giorno della festa.

Il gioco dell’oco. Non c’è gusto a fare la tombola in quattro o cinque, e anche il Mercante in Fiera perde molto del suo fascino senza il nonno rincoglionito a cui bisogna dire le cose tre volte. Quindi, un consiglio: il gioco dell’oco. Funziona sempre. Tabellone, dadi, sapienti tattiche e qualche variante nelle regole: un giocatore parte con due punti e mezzo, tira i dadi, spariglia, minaccia, piange, supera, arretra, arringa le folle, rilascia sette interviste al giorno sulle sue impareggiabili strategie, e alla fine resta… con due punti e mezzo. Non è successo niente, ma ci siamo divertiti. Lui un po’ meno, ma dice che ha vinto. Tutti allegri.

Il panettone. Altro snodo cruciale del Natale, la cerimonia del panettone. Ma attenzione, c’è un commensale deciso a sollevare qualche problema. Non vuole i canditi, come ha dichiarato al Corrieredue settimane fa. Non vuole l’uvetta come ha rivelato in un retroscena già all’inizio del mese. Contesta che il panettone sia tagliato a fette triangolari. Valuta nuove maggioranze tra i commensali per aprire il pandoro, ripetendo che non fa tutto questo casino per avere una fetta di panettone in più. Ma poi, a pensarci, chi metterebbe lo zucchero a velo sul pandoro? Vuole che la stesura sia collegiale. Allora torna al panettone, vuole tagliarlo lui, in subordine far aprire lo spumante a Rosato. Qualche consiglio agli altri commensali: è Natale, non litigate, dategli una fettina più grossa e vedrete che si placa. Di spumante, bevetene parecchio, ne avrete bisogno.

I regali. Ci avviciniamo al dramma. L’apertura di pacchi e pacchettini è un momento che rivela molto della natura umana, da come si esprimono gioia e sorpresa, a come si mascherano le delusioni. Le famiglie più sagge sanno che azzeccare il regalo per il ragazzo difficile è fondamentale, e qui potete sbizzarrirvi, giocare sui bei tempi andati (un bel modellino di aereo presidenziale), o puntare sulle sue abilità alla Playstation, con nuovi games fantasy, tipo “Rottamator”, un eroe sparatutto che finisce a spararsi in un piede. Un consiglio per farlo felice: il modellino Lego della Farnesina da montare, che ci tiene tanto. Per i carrarmatini del Risiko bisogna aspettare che si liberi un posto alla Nato, portate pazienza.

Nel frattempo si è fatta sera, siamo un po’ storditi e stanchi. Ci meritiamo un po’ di relax, magari la tivù, un telegiornale. Dove compare un tizio che dice che è stato un Natale bellissimo. Per merito suo. Dovremmo ringraziarlo.

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view post Posted on 17/2/2021, 09:22
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Al governo. C’era una volta il tecnico che si elevava sopra le zuffe di partito

di Alessandro Robecchi

Il mantra distensivo e paraculo del “niente veti” che ha tenuto banco per un paio di settimane prima dell’annuncio della squadra del nuovo governo si sta pian piano sciogliendo come un ghiacciolo a ferragosto. Primo caso, lo sci e le botte da orbi sull’ordinanza che rimanda l’apertura di piste e impianti: il ministro del turismo (Lega) contro quello della Sanità, i renzisti a fare il coro, Forza Italia scontenta dei suoi ministri, il Pd indeciso e attonito, as usual. Il tutto mentre va in scena l’ordalia dei sottosegretari: duecento famigli da piazzare, l’un contro l’altro armati, in un vorticare di correnti, mulinelli, risarcimenti (il Pd e le donne), riequilibri, colpi bassi. Tutto già visto, grazie.

Di già visto, però, c’è anche un altro elemento, se possibile più divertente per noi mangiatori di popcorn che osserviamo a bordo campo: s’avanza il fantasma dell’opposizione interna. Cominciò Salvini – questo grande europeista – ai tempi del Conte Uno: si accorse che stare al calduccio nel governo era comodo, ma che fare il diavolo a quattro come il più agguerrito oppositore pagava in termini di consenso (il finto consenso dei sondaggi), e si sa come finì. Stessa cosa nel Conte Due, con protagonista Renzi: sparare sull’ambulanza pur essendo a bordo garantiva una certa visibilità (che, in mancanza di voti, è quel che brama il leader filo-saudita). In sostanza, stare tutti dentro potrebbe garantire a ognuno l’ebbrezza di stare anche un po’ fuori, tipo che alla mattina lavi i vetri del Palazzo (da dentro) e al pomeriggio li rompi a sassate (da fuori). Divertente. Aggiungete alcune scelte bislacche che certo non calmeranno le acque. Uno per tutti: Renato Brunetta alla Pubblica Amministrazione, dove già sedette nel 2008 insultando chiunque avesse un posto pubblico (i tornelli, i fannulloni, i lavoratori precari definiti “L’Italia peggiore”, e altre amenità). La sua riforma della PA fu un tale glorioso fallimento che oggi si avverte di nuovo il bisogno di una riforma della PA: richiamare Brunetta è come richiamare l’idraulico che già una volta ti allagò la casa.

Insomma, gli applausi scroscianti per il governo Draghi (sindrome Monti) si sono un po’ attutiti dopo la presentazione della squadra: persino gli ultras del colpo di mano speravano meglio.

Interviene a questo punto la narrazione ipergovernista secondo cui “tanto farà tutto Draghi”, e il resto è confuso dettaglio. Un po’ come se nel peggiore bar di Caracas, dove tutti si sputano e si accoltellano, ci fosse una stanzetta riservata – un privé, direbbe Briatore – dove Draghi e i suoi “tecnici” si occupano seriamente delle cose serie. Bella immagine, ma strana concezione della democrazia: i “capaci” (sempre per autodefinizione, ovvio, mica per i risultati) lavorano, e gli altri si picchiano come fabbri, cazzi loro.

Spunta dunque – spunterà – la tentazione di maggioranze variabili: chi c’è c’è, una volta si accontenterà Salvini, un’altra Zingaretti, la terza toccherà ai 5s o a Silvio Buonanima, o a qualcun altro, magari qualche boccone verrà gettato ai cespuglietti, ai renziani, o ai calenderos, o cose così. Un tentativo, nemmeno troppo nascosto, di far passare l’idea che i tecnici sono bravi ed efficienti, mentre la politica dà il suo triste spettacolo di rissosità, che al governo litigano e si tirano sonori ceffoni, mentre il capo del governo – che l’ha messo in piedi – lui si che è bravo, avercene! Bella favoletta, edificante e sontuosamente qualunquista. Che poi funzioni è tutto da vedere.


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view post Posted on 14/10/2021, 07:00
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Gli storici in tv. Dopo la scorpacciata di virologi, magari ci spiegano il fascismo

di Alessandro Robecchi

Coi virologi abbiamo dato, e se cominciassimo con gli storici? Intendo: se in ogni telegiornale, talk show, siparietto divertente, angolo delle interviste, documentario e Carosello, invece di un esperto di pandemie ci mettessimo qualcuno che ha studiato seriamente il famoso Ventennio? Ok, abbiamo fatto per quasi due anni una straripante, strabordante, spannometrica, lezione di virus. In tram senti signore che parlano di memoria cellulare o di affinità e divergenze tra Astra Zeneca e noi, bene. Passiamo alla nostra storia, che ne dite? Ed ecco a voi il primario di Storia Contemporanea…

Se ci allontaniamo un po’, come prospettiva, dalla sede della Cgil di Roma (massima solidarietà) e vediamo le cose più ad ampio spettro, di lezioni di storia ne servirebbero un bel po’. Il discorso di Giorgia Meloni in Spagna, per esempio, ci rivela una folta platea sinceramente e devotamente franchista, dittatura molto amata dai fascisti nostrani della generazione Almirante, come anche i colonnelli greci (è gente che non si fa mancare niente, gli piaceva anche Pinochet). In Francia si litigano la palma di re della destra, in vista dell’Eliseo, madame Le Pen e monsieur Zemmour, come dire fascio e più fascio. Non va meglio nel resto d’Europa, sia a livello di governi (l’Ungheria di Orban e la Polonia che insegue), e non c’è paese che non abbia una formazione parafascista, fortemente nostalgica, a volte rappresentata alle elezioni; a volte dispersa in una galassia semiclandestina di gruppetti con la svastica tatuata su fronti “inutilmente spaziose”.

Se ne deduce che il “non conosco la matrice” (delle azioni squadriste di Roma, ndr) di Giorgia Meloni è un trucchetto ancor più patetico di “voglio vedere tutto il girato”. Quella matrice lì, con le croci celtiche, le svastiche, i boia chi molla e tutto il campionario, la riconosce anche un ripetente di seconda media, dunque quella della Meloni è una provocazione.

Detesto i paralleli storici, anche perché le cose non sono mai parallele, ma pensare che siamo nel 2021, cioè a un secolo esatto da fatti che somigliano a quelli di oggi, con gli arditi che attraversano indisturbati una città per andare a devastare la sede sindacale, beh, qualche brividino dovrebbe metterlo. Quindi uno storico ospite qui e là che ci dicesse come si arrivò a quella situazione, perché, come mai, quali furono le molle sociali, economiche, ideologiche, insomma, che ci faccia un ripassino, non sarebbe male. Magari che smonti il diffuso luogocomunismo fascista del “ha fatto anche cose buone”, o le agghiaccianti nostalgie repubblichine tanto in voga. Magari ci spiegherebbe – il nostro ipotetico storico diffuso – che il vittimismo era parte consistente nella costruzione del primo fascismo, e non sarebbe difficile ritrovare quel tratto nella difesa dei gerarchi di FdI e della Lega e nei titoli dei giornali della destra. Passare per vittime, insomma, è un tratto distintivo, e la vulgata di destra di questi giorni lo conferma. Non si tratta di cercare analogie, che è un giochetto facile, ma di individuare – appunto – la “matrice”, che è un imprinting ideologico. Giorgia Meloni non sa, o forse ha capito dopo, di aver dato un titolo perfetto al dibattito, e forse non troppo conveniente per lei. Perché se si cercano gli arditi, eccolì lì, già noti alle cronache, i Fiore, i Castellino, facile. Ma se si cerca davvero la matrice, la struttura ideologica, il dna storico-culturale, beh, si scopre facilmente che quello è l’album di famiglia di Giorgia, che la matrice è nota.


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view post Posted on 9/11/2021, 12:48
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Squid Draghi: premier conteso tra Colle e X-Factor”

di Alessandro Robecchi

E’ probabile che la politica italiana dei primi anni Venti verrà ricordata come un gigantesco gioco di ruolo dal suggestivo titolo: “Dove mettere Mario Draghi”. Certo, parlare oggi di “politica italiana” è un po’ esagerato, e uso questa figura retorica per dire dell’indefessa attività di applaudire il premier in ogni contesto e situazione. Insomma, corre il decennale dell’avvento a palazzo Chigi di Mario Monti e non si scopre niente di nuovo: l’ovazione pare obbligatoria e sembra ieri che la stampa nazionale si spellava le mani perché un tizio andava a Roma in treno, metteva il loden e mandava i lavoratori in pensione più tardi. Da allora, l’evoluzione dell’elettronica è stata poderosa, quindi non parleremo di un Mariomonti due-punto-zero, semmai di un Mariomonti a realtà aumentata. Resta il fatto che “Dove mettere Mario Draghi” è il gioco di società del momento e tocca quindi mettere in fila le ipotesi più accreditate.

Draghi a Palazzo Chigi. Molti giocatori desiderano fortemente questa ipotesi. I partiti al governo per non avere il fastidioso grattacapo di metterci uno dei loro; Silvio Berlusconi nell’astrusa speranza di finire lui al Quirinale, cosa che Salvini e Meloni cercano di fargli credere per fargli poi “marameo” all’ultimo momento. L’ipotesi si scontra con le rigidità del regolamento, cioè che nel 2023 ci saranno le elezioni, per cui si teorizza un Mario Draghi capo del governo anche dopo che si sarà votato, un piccolo azzardo. Si potrebbe però – come ha già chiesto in un editoriale il primo giornale italiano – evitare la seccatura delle votazioni, tenersi Mario Draghi a vita perché votare è ormai inutile e démodé.

Draghi al Manchester United. L’arrivo di Cristiano Ronaldo ha velocizzato la manovra della squadra inglese, ma il talento portoghese ha ormai una certa età e la dirigenza si sta guardando intorno per potenziare la rosa in prospettiva futura. Di Mario Draghi piace il dribbling e la visione di gioco, ma soprattutto il fatto che – come avviene nel campionato italiano – nessun arbitro si sognerebbe mai di fischiargli contro, ha tutta la grande stampa dalla sua parte e gli altri giocatori gli ubbidiscono ciecamente.

Draghi a X-Factor. Rilanciare un programma che ha avuto enorme successo, si sa, non è mai facile e i piccoli aggiustamenti spesso non bastano. Serve dunque una rivoluzione del format, con una giuria più verticistica e autorevole. Chi meglio di Mario Draghi potrebbe giudicare i concorrenti in gara? Pare già di vederlo davanti al cantante che propone di andare in pensione a 82 anni (“Per me è un sì”), o al cospetto del giovane artista che chiede il salario minimo (“Per me è un no”).

Draghi al Quirinale. E’ il sogno di molti. A chi ribatte che poi sarebbe un problema trovare un Mariomonti tre-punto-zero per Palazzo Chigi si ribatte che, una volta arrivato Draghi al Colle, il ruolo del capo del governo sarebbe una questione poco più che decorativa. Con un piccolo strappo al regolamento, insomma, si potrebbe avere un Mario Draghi al Quirinale che nomini Mario Draghi a Palazzo Chigi, nel qual caso avremmo spesso severi moniti di Draghi che ammonisce Draghi di non ricorrere troppo al voto di fiducia.

Draghi alle Olimpiadi. Qualcuno ricorda che tra pochissimo, nel 2024, si svolgeranno i Giochi Olimpici a Parigi e sarebbe folle rinunciare al fondamentale apporto che Mario Draghi ha dato ai successi italiani di Tokyo 2020. Si avanza dunque la sua candidatura in tutte le discipline, certi di un nuovo trionfo del medagliere azzurro.

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