| | CICERCHIATA, STRUFFOLI
«Il padre di Cesare Fragalà aveva aggiunto, alle sfogliatelle, anche tutte le altre specialità dolci che si mangiano a Napoli, in tutte le feste dell'anno: la pasta di mandorle o pasta reale a Natale; il sanguinaccio a carnevale; il biscotto quaresimale, in quaresima; il mustacciuolo e la pastiera a Pasqua; l'osso di morto, fatto di mandorle e zucchero candito, il giorno dei Morti; il torrone, per la festa di San Martino; e ancora tante altre, la croccante, gli struffoli, il sosamiello, tutti i dolci partenopei, a base di molte mandorle, di molto zucchero, di molto cioccolatte, dolci squisiti al palato e grevi allo stomaco, ma che sono la delizia della folla napoletana e che vanno in provincia, ogni festa, a cassette, a casse, a cassoni, a vagoni»: questo dettagliato elenco di specialità dolciarie partenopee veniva offerto nel 1890, sulle pagine del Mattino di Napoli, da Matilde Serao, in occasione della pubblicazione del suo romanzo a puntate Il paese di Cuccagna.
Il lessico gastronomico, come molti altri legati ai più diversi aspetti della vita quotidiana, suggerisce numerosi spunti per documentare l’inesauribile prolificità della sinonimia regionale. Gli struffoli e la cicerchiata ne offrono, per l’appunto, un buon esempio: sono, infatti, insieme a cicerata, pignolata, corona di s.Rita e altre, denominazioni equivalenti, diffuse in diverse regioni, di un medesimo dolce, tipico dell’Italia centro-meridionale, «fatto di palline di pasta che, fritte e legate col miele, vengono foggiate a ciambella o anche a forma di cono» (Vocabolario Treccani).
Da un punto di vista etimologico l’origine della cicerchiata può essere ricostruita con certezza: il sostantivo, infatti, è un derivato di cicerchia («Erba annua delle leguminose papiglionacee, del genere Lathyrus», Vocabolario Treccani) che, a sua volta, deriva dal latino cicercŭla, diminutivo di cicer "cece". La forma prevalentemente ovale dei frutti della pianta dà conto del nome del dolce, quasi a intendere che sia composto di una gran quantità di cicerchie (la denominazione, infatti, vale sia per la pianta che per i suoi frutti).
Diversamente, invece, nessuna certezza si è affermata per ricostruire la trafila etimologica degli struffoli: diverse ipotesi sono state formulate, ma nessuna è riuscita a imporsi. In particolare, secondo alcuni, il dolce deve essere messo in relazione con un altro struffolo, il diminutivo di struffo «piccola quantità di paglia o di stoppa, in forma di matassa, usata per lucidare il marmo»; infatti, secondo quanto afferma il D’Ascoli nel Dizionario etimologico napoletano gli struffoli derivano «dal sost. ital. “struffolo” (anche “struffo, strufolo, strufone”) indicante il “batuffolo”, sost. utilizzato per indicare il dolce per un evidente motivo di somiglianza; longobardo struff = “cosa asportata da un pezzo più grande”». Altri ipotizzano la derivazione da un latino ricostruito *tufer, di origine osca, o dal greco στρογγύλος «rotondo», per analogia di forma, altri ancora (G.Alessio), infine, la riconnettono a strofinare.
Di fronte a tanta etimologica incertezza ancor più risalta la sicurezza gastronomica profusa da Domenico Romoli, detto Panunto, nella Singolare dottrina (Venezia, 1560): «Volendo voi far due piatti di strufoli, pigliarete venti uova di gallina delle più fresche... ed abbiasi fior di farina bianca di grano sopra una tavola e mettansi dette uova in mezzo della farina e vadansi sbattendo le uova insieme con la farina tanto che incorporata se ne faccia pasta la più tenera che si possa» [GDLI].
Luigi Romani
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