Alla ricerca del forum perduto

In onore e in ricordo

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view post Posted on 8/1/2017, 20:03
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Charlie Hebdo due anni dopo:

mazzi di rose e Parigi in stato d’emergenza.

La politica si divide.

E preferisce tacere


charlie

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L'articolo de "Il Fatto Quotidiano"

 
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view post Posted on 27/1/2017, 08:20
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la serpe in seno al forumismo

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Giorno della Memoria

27 gennaio 1945-2017

Una riflessione tra passato e presente


memoria13


Auschwitz, 27 gennaio 1945

Il 27 gennaio del 1945 un’avanguardia dell’esercito sovietico entrò nel campo di Auschwitz, appena evacuato dalle SS, e il mondo da quel giorno cominciò a conoscere che cosa era avvenuto nel più grande campo di annientamento che l’uomo aveva progettato e realizzato contro l’uomo.

In circa due anni di pieno funzionamento del campo di Auschwitz (1942–fine ’44) furono deportate circa un milione e mezzo di persone, prevalentemente ebrei di tutta l’Europa, e un gran numero di polacchi e russi non ebrei più alcune decine di migliaia di Rom e Sinti, ossia le popolazioni nomadi dell’Europa centrale e orientale.

Quando il campo fu liberato emerse subito la terribile contabilità di Auschwitz-Birkenau: del milione e mezzo di deportati, circa 900.000 ebrei furono assassinati nelle camere a gas al loro arrivo mentre altre decine di migliaia morirono a causa del lavoro sfibrante, di ridotte razioni alimentari, a causa di malattie e violenze quotidiane. Moltissimi di loro erano ebrei di tutta Europa.

Da Auschwitz e da quel 27 gennaio di 72 anni fa nacque una parola che riassume tutto l’orrore dei campi nazisti: Shoah. Shoah vuol dire “catastrofe”, “distruzione” del popolo ebraico durante la seconda guerra mondiale: sei milioni di ebrei furono assassinati dal ’39 al ’45 e la metà in strutture di messa a morte come Auschwitz, dotate di camere a gas e forni di incenerimento.

Shoah e altri genocidi

Ma la grande tragedia della Seconda guerra mondiale non ha coinvolto solo gli ebrei. Facciamo fatica a capire quanti siano 48 o 50 milioni di persone che vennero uccise nel corso della guerra e la maggioranza erano civili morti per i bombardamenti, la fame, le violenze della guerra, le stragi contro i civili… Quindi bambini, donne, vecchi vittime della guerra.

Anche la morte nei lager nazisti va purtroppo al di là dei tre milioni di ebrei morti nelle camere a gas dei campi di sterminio: ad Auschwitz furono uccisi anche i Sinti tedeschi con i prigionieri di guerra polacchi e russi mentre in altri lager, come Mauthausen e Dachau, a finire nel meccanismo di messa a morte tramite il lavoro esercitato in forme schiavili furono i partigiani di tutta Europa, gli antifascisti, gli operai che avevano scioperato, persone che avevano aiutato gli ebrei e i soldati nemici in fuga.

Anche qui la contabilità di quelli che furono chiamati Triangoli Rossi arriva a milioni di deportati di tutta l’Europa. E poi omosessuali, Testimoni di Geova, operai e tecnici di molti paesi deportati per lavorare nelle fabbriche tedesche rappresentano altre componenti di questa galassia infinita che furono i lager nazisti.

Le deportazioni dall’Italia

Anche l’Italia pagò un prezzo molto alto al terribile bilancio dei campi tedeschi. Dopo l’8 settembre del 1943 dal nostro Paese furono deportati:

- 650.000 soldati dell’esercito italiano (divennero IMI) / 30-40.000 morti

- 24.000 Triangoli Rossi (operai in sciopero, partigiani, antifascisti…) / 10.000 morti circa

- 120.000 lavoratori rastrellati in Italia per lavorare come schiavi nei lager / difficile calcolare il numero di morti

- 8.000 ebrei cittadini italiani che finirono nelle camere a gas di Auschwitz / tornarono poche centinaia di persone

In totale almeno 800.000 italiani conobbero la prigionia e molti la morte al di là delle Alpi. Una deportazione imponente, forse ancora oggi non del tutto conosciuta.

Le deportazioni da Legnano e Busto Arsizio

Anche le nostre comunità sono state pesantemente investite da forme di repressione finalizzate a mantenere l’ordine nelle fabbriche e procurare manodopera per i lager in Germania e Austria.

La deportazione da Legnano ha riguardato una quarantina di persone, in prevalenza operai delle grandi fabbriche dell’epoca. A Busto Arsizio addirittura i deportati furono una cinquantina, anche qui con una netta prevalenza dell’elemento operaio.

Due episodi sono particolarmente significativi. Ci stiamo riferendo ai fatti del 5 gennaio 1944 alla “Franco Tosi” di Legnano e del 10 gennaio dello stesso anno alla “Comerio” di Busto Arsizio.

Alla “Franco Tosi” lo sciopero andava avanti da alcuni mesi mettendo in difficoltà la produzione bellica tedesca che aveva nella Tosi un punto di riferimento.

Per porre fine agli scioperi e riportare tutti gli operai in fabbrica nel primo pomeriggio del 5 gennaio di 73 anni ci fu l’irruzione di una cinquantina di SS ben armate nel cortile della “Franco Tosi” con l’obiettivo di terrorizzare gli operai. Otto operai deportati a Mauthausen, un solo “salvato”.

La stessa tecnica militare cinque giorni dopo a Busto Arsizio (10 gennaio) quando vi fu un’irruzione ancora di SS nella “Ercole Comerio” con l’arresto e la deportazione di sei operai, quasi tutti membri della Commissione interna.

“Mai Più!”

Quando il mondo uscì dalla seconda guerra mondiale e conobbe l’universo dei lager nazisti molti dissero “Mai Più”! La condanna dei criminali nazisti a Norimberga e i tanti processi contro gli aguzzini nei lager sembravano la garanzia più efficace per un mondo migliore. Alcuni intellettuali giunsero a dire che dopo Auschwitz la poesia non sarebbe stata più possibile perché quanto era accaduto imponeva all’umanità un radicale cambiamento con l’abolizione delle guerre e di ogni forma di ingiustizia.

Purtroppo le cose non andarono in questa direzione, la pace fu subito minacciata dalle due superpotenze uscite vincitrici dalla guerra: Stati Uniti e Unione Sovietica; dopo Hiroscima e Nagasaki nacque l’incubo atomico; la volontà di pace fu sopraffatta da nuovi nazionalismi e nuovi conflitti in Africa, Asia e Medio Oriente.

Il messaggio di Auschwitz venne rapidamente dimenticato nelle tante guerre che insanguinarono il mondo dopo il ’45 e nuove dittature opprimevano i popoli, come nell’Europa orientale, dove altri campi di concentramento continuarono a sussistere fino alla caduta del Muro di Berlino.

Neppure il genocidio ebraico sembrò educare a uno spirito di pace e concordia. Erano ancora fumanti le macerie della guerra e addirittura in Polonia, a Kielce, nell’estate del 1946, vi fu un pogrom antiebraico con decine di vittime. Nel 1994 in Ruanda vi fu un nuovo genodicio (l’etnia Tutsi) con poco meno di un milione di vittime. E poi non dimentichiamo le tante guerre che sono arrivate fino alla fine del Novecento e si sono protratte nel nostro nuovo secolo.

Che fare?

Che fare di fronte a tante ingiustizie nel mondo? A tante guerre dimenticate o guerre senza fine dove prevalgono logiche di esclusione del “nemico” per motivi religiosi, razziali o bassamente economici?

Purtroppo Auschwitz non ha insegnato nulla a un mondo che appare privo di guida e soggetto a un vero disordine mondiale. Centrali finanziarie muovono ingenti masse di capitali seguendo solo la legge del profitto; milioni di disoccupati e soprattutto giovani sono senza lavoro e con la prospettiva di non trovarlo; interi popoli emigrano per sfuggire le guerre e le dittature oppure per dare un futuro migliore ai propri figli; forme esasperate di xenofobia e razzismo sono la risposta più frequente a chi cerca pace e lavoro lontano da casa.

Si può fare molto

Quindi, che fare? Si può fare molto nonostante tutto. Possiamo insegnare ai nostri figli e ai nostri studenti, se siamo educatori, che al mondo esiste una sola razza. Quella umana. Ed esiste almeno da 40.000 anni! Geneticamente parlando siamo tutti uguali!

Possiamo insegnare qual è il motivo per cui siamo tutti uguali geneticamente. Perchè l’uomo si è sempre mescolato con altri uomini nel corso di lunghe e continue peregrinazioni da un continente all’altro. Ecco perché le razze umane non esistono. Colore dei capelli, degli occhi, della pelle… sono adattamenti che l’uomo ha subito in centinaia di migliaia di anni stanziandosi alla più diverse latitudini.

Possiamo insegnare quindi che il razzismo non ha nessuna base scientifica e la “paura dello straniero” è esasperata da partiti, televisioni e giornali che seguono logiche a loro favorevoli: voti, pubblicità televisiva e consenso facile.

Possiamo insegnare a chi vuole ascoltare che oggi la stragrande maggioranza dei migranti in Italia è regolarizzata, lavora, paga le tasse, rispetta la legge ed è integrata nelle nostre comunità. I loro figli nati in Italia parlano perfettamente l’italiano e si sentono italiani a tutti gli effetti.

Possiamo insegnare che l’operaio tunisino o egiziano in Italia è uguale all’operaio italiano e tutti e due devono combattere le stesse battaglie sindacali avendo gli stessi interessi da difendere.

Possiamo insegnare che il terrorismo islamico è un grave pericolo ma riguarda frange minuscole, seppure pericolose, di esaltati mentre la totalità dei migranti e di coloro che vivono da tempo con noi è a loro contraria.

“Noi” e “loro”?

Tutto questo non è utopia ma la realtà: basta leggere i giornali, leggere i libri migliori e assumere un atteggiamento critico verso quotidiani, mondo politico, associazioni da dove vengono diffusi invece messaggi che incitano allo scontro, alla contrapposizione tra “noi” e “loro”.

Anche durante il colonialismo europeo in Africa, durante l’età dei nazionalismi in Europa e con il fascismo-nazismo al potere la contrapposizione tra “noi” e “loro” sembrava un dato indubitabile. Le conseguenze di questi atteggiamenti furono i massacri coloniali, le guerre in Europa, e lo sterminio di chi non rientrava in determinati “parametri” di purezza razziale, come nella Germania hitleriana gli zingari, gli ebrei, i disabili tedeschi.

Non facciamo che queste logiche abbiano il sopravvento, non giriamo la testa di fronte a chi semina tempesta, cambattiamo ogni giorno la nostra piccola grande “guerra” a favore dell’integrazione, della tolleranza, contro ogni razzismo e ideologia prevaricante. Ricordiamo le tragedie del passato come monito affinchè non si ripetano più.

Vengono in mente le parole di Dante Alighieri in una sua opera (“Convivio”):

Noi, invece, che abbiamo per patria il mondo, come i pesci il mare…”

Giancarlo Restelli e Renata Pasquetto

www.legnanonews.com

 
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view post Posted on 26/4/2017, 11:28
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Buon 25 aprile a tutti!


con le vignette di FANY-BLOG

bella%2Bciao_riverso

 
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view post Posted on 24/6/2017, 16:04
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Addio a Stefano Rodotà:

una vita per la Costituzione, la laicità e i diritti


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Stefano Rodotà è stato uno strenuo difensore della Costituzione, di cui era un profondo conoscitore. Ha attraversato il suo tempo con saldissimi princìpi di giustizia sociale e laicità ed è stato al tempo stesso capace di grande modernità, con un’attenzione costante ai diritti civili e alle possibilità e ai rischi delle nuove tecnologie. Un uomo di una statura morale e culturale fuori dal comune, che sarebbe stato un grande presidente della Repubblica. Storico collaboratore e amico di MicroMega, lo ricordiamo qui ripubblicando uno dei suoi ultimi articoli.

L’uso umano degli esseri umani

 
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view post Posted on 23/7/2017, 09:10
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19 luglio 1992

I giorni di Giuda. L'ultimo intervento di Paolo Borsellino (VIDEO)


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Video


Nel giorno del venticinquennale della strage di via d'Amelio pubblichiamo il video integrale* e il testo dell'ultimo intervento pubblico di Paolo Borsellino. Con questo commosso e polemico discorso, pronunciato a Palermo il 25 giugno 1992 nel corso di una manifestazione promossa da MicroMega, Borsellino rivelò a tutti il clima di diffidenza e di isolamento che di fatto condannò a morte Giovanni Falcone.

di Paolo Borsellino

Io sono venuto questa sera soprattutto per ascoltare. Purtroppo ragioni di lavoro mi hanno costretto ad arrivare in ritardo e forse mi costringeranno ad allontanarmi prima che questa riunione finisca. Sono venuto soprattutto per ascoltare perché ritengo che mai come in questo momento sia necessario che io ricordi a me stesso e ricordi a voi che sono un magistrato. E poiché sono un magistrato devo essere anche cosciente che il mio primo dovere non è quello di utilizzare le mie opinioni e le mie conoscenze partecipando a convegni e dibattiti ma quello di utilizzare le mie opinioni e le mie conoscenze nel mio lavoro. In questo momento inoltre, oltre che magistrato, io sono testimone. Sono testimone perché, avendo vissuto a lungo la mia esperienza di lavoro accanto a Giovanni Falcone, avendo raccolto, non voglio dire più di ogni altro, perché non voglio imbarcarmi in questa gara che purtroppo vedo fare in questi giorni per ristabilire chi era più amico di Giovanni Falcone, ma avendo raccolto comunque più o meno di altri, come amico di Giovanni Falcone, tante sue confidenze, prima di parlare in pubblico anche delle opinioni, anche delle convinzioni che io mi sono fatte raccogliendo tali confidenze, questi elementi che io porto dentro di me, debbo per prima cosa assemblarli e riferirli all'autorità giudiziaria, che è l'unica in grado di valutare quanto queste cose che io so possono essere utili alla ricostruzione dell'evento che ha posto fine alla vita di Giovanni Falcone, e che soprattutto, nell'immediatezza di questa tragedia, ha fatto pensare a me, e non soltanto a me, che era finita una parte della mia e della nostra vita.

Quindi io questa sera debbo astenermi rigidamente - e mi dispiace, se deluderò qualcuno di voi - dal riferire circostanze che probabilmente molti di voi si aspettano che io riferisca, a cominciare da quelle che in questi giorni sono arrivate sui giornali e che riguardano i cosiddetti diari di Giovanni Falcone. Per prima cosa ne parlerò all'autorità giudiziaria, poi - se è il caso - ne parlerò in pubblico. Posso dire soltanto, e qui mi fermo affrontando l'argomento, e per evitare che si possano anche su questo punto innestare speculazioni fuorvianti, che questi appunti che sono stati pubblicati dalla stampa, sul "Sole 24 Ore" dalla giornalista - in questo momento non mi ricordo come si chiama... - Milella, li avevo letti in vita di Giovanni Falcone. Sono proprio appunti di Giovanni Falcone, perché non vorrei che su questo un giorno potessero essere avanzati dei dubbi.

Ho letto giorni fa, ho ascoltato alla televisione - in questo momento i miei ricordi non sono precisi - un'affermazione di Antonino Caponnetto secondo cui Giovanni Falcone cominciò a morire nel gennaio del 1988. Io condivido questa affermazione di Caponnetto. Con questo non intendo dire che so il perché dell'evento criminoso avvenuto a fine maggio, per quanto io possa sapere qualche elemento che possa aiutare a ricostruirlo, e come ho detto ne riferirò all'autorità giudiziaria; non voglio dire che cominciò a morire nel gennaio del 1988 e che questo, questa strage del 1992, sia il naturale epilogo di questo processo di morte. Però quello che ha detto Antonino Caponnetto è vero, perché oggi che tutti ci rendiamo conto di quale è stata la statura di quest'uomo, ripercorrendo queste vicende della sua vita professionale, ci accorgiamo come in effetti il paese, lo Stato, la magistratura che forse ha più colpe di ogni altro, cominciò proprio a farlo morire il 1° gennaio del 1988, se non forse l'anno prima, in quella data che ha or ora ricordato Leoluca Orlando: cioè quell'articolo di Leonardo Sciascia sul "Corriere della Sera" che bollava me come un professionista dell'antimafia, l'amico Orlando come professionista della politica, dell'antimafia nella politica. Ma nel gennaio del 1988, quando Falcone, solo per continuare il suo lavoro, il Consiglio superiore della magistratura con motivazioni risibili gli preferì il consigliere Antonino Meli. C'eravamo tutti resi conto che c'era questo pericolo e a lungo sperammo che Antonino Caponnetto potesse restare ancora a passare gli ultimi due anni della sua vita professionale a Palermo. Ma quest'uomo, Caponnetto, il quale rischiava, perché anziano, perché conduceva una vita sicuramente non sopportabile da nessuno già da anni, il quale rischiava di morire a Palermo, temevamo che non avrebbe superato lo stress fisico cui da anni si sottoponeva. E a un certo punto fummo noi stessi, Falcone in testa, pure estremamente convinti del pericolo che si correva così convincendolo, lo convincemmo riottoso, molto riottoso, ad allontanarsi da Palermo. Si aprì la corsa alla successione all'ufficio istruzione al tribunale di Palermo. Falcone concorse, qualche Giuda si impegnò subito a prenderlo in giro, e il giorno del mio compleanno il Consiglio superiore della magistratura ci fece questo regalo: preferì Antonino Meli.

Giovanni Falcone, dimostrando l'altissimo senso delle istituzioni che egli aveva e la sua volontà di continuare comunque a fare il lavoro che aveva inventato e nel quale ci aveva tutti trascinato, cominciò a lavorare con Antonino Meli nella convinzione che, nonostante lo schiaffo datogli dal Consiglio superiore della magistratura, egli avrebbe potuto continuare il suo lavoro. E continuò a crederlo nonostante io, che ormai mi trovavo in un osservatorio abbastanza privilegiato, perché ero stato trasferito a Marsala e quindi guardavo abbastanza dall'esterno questa situazione, mi fossi reso conto subito che nel volgere di pochi mesi Giovanni Falcone sarebbe stato distrutto. E ciò che più mi addolorava era il fatto che Giovanni Falcone sarebbe allora morto professionalmente nel silenzio e senza che nessuno se ne accorgesse. Questa fu la ragione per cui io, nel corso della presentazione del libro La mafia d'Agrigento, denunciai quello che stava accadendo a Palermo con un intervento che venne subito commentato da Leoluca Orlando, allora presente, dicendo che quella sera l'aria ci stava pesando addosso per quello che era stato detto. Leoluca Orlando ha ricordato cosa avvenne subito dopo: per aver denunciato questa verità io rischiai conseguenze professionali gravissime, ma quel che è peggio il Consiglio superiore immediatamente scoprì quale era il suo vero obiettivo: proprio approfittando del problema che io avevo sollevato, doveva essere eliminato al più presto Giovanni Falcone. E forse questo io lo avevo pure messo nel conto perché ero convinto che lo avrebbero eliminato comunque; almeno, dissi, se deve essere eliminato, l'opinione pubblica lo deve sapere, lo deve conoscere, il pool antimafia deve morire davanti a tutti, non deve morire in silenzio.

L'opinione pubblica fece il miracolo, perché ricordo quella caldissima estate dell'agosto 1988, l'opinione pubblica si mobilitò e costrinse il Consiglio superiore della magistratura a rimangiarsi in parte la sua precedente decisione dei primi di agosto, tant'è che il 15 settembre, se pur zoppicante, il pool antimafia fu rimesso in piedi. La protervia del consigliere istruttore, l'intervento nefasto della Cassazione cominciato allora e continuato fino a ieri (perché, nonostante quello che è successo in Sicilia, la Corte di cassazione continua sostanzialmente ad affermare che la mafia non esiste) continuarono a fare morire Giovanni Falcone. E Giovanni Falcone, uomo che sentì sempre di essere uomo delle istituzioni, con un profondissimo senso dello Stato, nonostante questo, continuò incessantemente a lavorare. Approdò alla procura della Repubblica di Palermo dove, a un certo punto ritenne, e le motivazioni le riservo a quella parte di espressione delle mie convinzioni che deve in questo momento essere indirizzata verso altri ascoltatori, ritenne a un certo momento di non poter più continuare ad operare al meglio. Giovanni Falcone è andato al ministero di Grazia e Giustizia, e questo lo posso dire sì prima di essere ascoltato dal giudice, non perché aspirasse a trovarsi a Roma in un posto privilegiato, non perché si era innamorato dei socialisti, non perché si era innamorato di Claudio Martelli, ma perché a un certo punto della sua vita ritenne, da uomo delle istituzioni, di poter continuare a svolgere a Roma un ruolo importante e nelle sue convinzioni decisivo, con riferimento alla lotta alla criminalità mafiosa. Dopo aver appreso dalla radio della sua nomina a Roma (in quei tempi ci vedevamo un po' più raramente perché io ero molto impegnato professionalmente a Marsala e venivo raramente a Palermo), una volta Giovanni Falcone alla presenza del collega Leonardo Guarnotta e di Ayala tirò fuori, non so come si chiama, l'ordinamento interno del ministero di Grazia e Giustizia, e scorrendo i singoli punti di non so quale articolo di questo ordinamento cominciò fin da allora, fin dal primo giorno, cominciò ad illustrare quel che lì egli poteva fare e che riteneva di poter fare per la lotta alla criminalità mafiosa.

Certo anch'io talvolta ho assistito con un certo disagio a quella che è la vita, o alcune manifestazioni della vita e dell'attività di un magistrato improvvisamente sbalzato in una struttura gerarchica diversa da quelle che sono le strutture, anch'esse gerarchiche ma in altro senso, previste dall'ordinamento giudiziario. Si trattava di un lavoro nuovo, di una situazione nuova, di vicinanze nuove, ma Giovanni Falcone è andato lì solo per questo. Con la mente a Palermo, perché sin dal primo momento mi illustrò quello che riteneva di poter e di voler fare lui per Palermo. E in fin dei conti, se vogliamo fare un bilancio di questa sua permanenza al ministero di Grazia e Giustizia, il bilancio anche se contestato, anche se criticato, è un bilancio che riguarda soprattutto la creazione di strutture che, a torto o a ragione, lui pensava che potessero funzionare specialmente con riferimento alla lotta alla criminalità organizzata e al lavoro che aveva fatto a Palermo. Cercò di ricreare in campo nazionale e con leggi dello Stato quelle esperienze del pool antimafia che erano nate artigianalmente senza che la legge le prevedesse e senza che la legge, anche nei momenti di maggiore successo, le sostenesse. Questo, a torto o a ragione, ma comunque sicuramente nei suoi intenti, era la superprocura, sulla quale anch'io ho espresso nell'immediatezza delle perplessità, firmando la lettera sostanzialmente critica sulla superprocura predisposta dal collega Marcello Maddalena, ma mai neanche un istante ho dubitato che questo strumento sulla cui creazione Giovanni Falcone aveva lavorato servisse nei suoi intenti, nelle sue idee, a torto o a ragione, per ritornare, soprattutto, per consentirgli di ritornare a fare il magistrato, come egli voleva. Il suo intento era questo e l'organizzazione mafiosa - non voglio esprimere opinioni circa il fatto se si è trattato di mafia e soltanto di mafia, ma di mafia si è trattato comunque - e l'organizzazione mafiosa, quando ha preparato ed attuato l'attentato del 23 maggio, l'ha preparato ed attuato proprio nel momento in cui, a mio parere, si erano concretizzate tutte le condizioni perché Giovanni Falcone, nonostante la violenta opposizione di buona parte del Consiglio superiore della magistratura, era ormai a un passo, secondo le notizie che io conoscevo, che gli avevo comunicato e che egli sapeva e che ritengo fossero conosciute anche al di fuori del Consiglio, al di fuori del Palazzo, dico, era ormai a un passo dal diventare il direttore nazionale antimafia.

Ecco perché, forse, ripensandoci, quando Caponnetto dice cominciò a morire nel gennaio del 1988 aveva proprio ragione anche con riferimento all'esito di questa lotta che egli fece soprattutto per potere continuare a lavorare. Poi possono essere avanzate tutte le critiche, se avanzate in buona fede e se avanzate riconoscendo questo intento di Giovanni Falcone, si può anche dire che si prestò alla creazione di uno strumento che poteva mettere in pericolo l'indipendenza della magistratura, si può anche dire che per creare questo strumento egli si avvicinò troppo al potere politico, ma quello che non si può contestare è che Giovanni Falcone in questa sua breve, brevissima esperienza ministeriale lavorò soprattutto per potere al più presto tornare a fare il magistrato. Ed è questo che gli è stato impedito, perché è questo che faceva paura.

* il video è frutto del lavoro del giornalista Pippo Ardini, scomparso l'8 dicembre 2009

(19 luglio 2017)

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view post Posted on 8/12/2019, 16:02
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Giornata della Memoria.

Piero Terracina, superstite di Auschwitz, all'Huffpost:

"Eravamo ‘stücke’, pezzi. Come i migranti oggi"


Intervista a uno degli ultimi sopravvissuti alla Shoah:

“Oggi è un nuovo eccidio, dobbiamo mobilitarci per salvarli in mare.

Ignorarli è come ucciderli”


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Piero Terracina solleva la manica sinistra. Sull'avambraccio spunta il suo unico tatuaggio, quel marchio indelebile che gli è stato impresso ad Auschwitz dai nazisti. "Il mio numero è A5506" precisa, senza che ci sia neanche il bisogno di chiederlo, circondato da cumuli di libri, fotografie in bianco e nero e ricordi. "Ci contavano più volte al giorno. Ma anziché definirci prigionieri o uomini, dicevano 'stücke', pezzi. Non eravamo più esseri umani, eravamo diventati dei pezzi".

Con i suoi 90 anni compiuti lo scorso 12 novembre, è uno degli ultimi superstiti della Shoah. Il tempo e la vecchiaia lo hanno reso pressoché sordo, ma non gli hanno portato via la forza di raccontare gli orrori del passato e combattere quelli del presente. A partire dai naufraghi che stanno riempiendo il fondo del Mediterraneo con i cadaveri di decine di migranti. Un nuovo "eccidio", ci dice Terracina, alzando la voce per la prima e ultima volta. Contro il quale "tutti dobbiamo mobilitarci", per non diventarne complici.

Il pensiero va immediatamente all'altro eccidio, quello vissuto sulla propria pelle. Gli occhi si fanno umidi, la voce, prima potente, si rompe per qualche secondo. Uno sguardo alle foto di mamma Lidia e papà Giovanni, entrambi uccisi nel lager tedesco. Poi, fa un bel respiro e ricomincia. Racconta senza esitazioni, come un ritornello che Piero non vuole o forse non riesce più a togliersi dalla testa.

Signor Terracina, riavvolgiamo un attimo il nastro. Torniamo indietro a quel maggio del 1944, quello della deportazione. Cosa ricorda della traversata che la portò ad Auschwitz?

Il mio viaggio iniziò dal campo di concentramento italiano di Fossoli. La mattina ci diedero un pezzo di pane e del formaggio, poi arrivarono degli autobus che ci portarono alla stazione di Carpi. Lì ci attendeva il treno merci. Ci fecero entrare in uno di questi vagoni. Quando fu pieno all'inverosimile chiusero il portellone. Rimanemmo sotto il sole del 16 maggio fino a tarda sera. Sono sicuro che se fossimo stati buoi, pecore o cavalli, certamente qualcuno avrebbe avvisato la protezione animali.

Nessuno tentò di scappare?

Per la verità ci sarebbe stata anche la possibilità di farlo. Ma nessuno lo fece, perché quando partimmo ci dissero che se qualcuno avesse provato a fuggire, 10 persone sarebbero state fucilate.

Poi cosa accadde?

Ancora due giorni di viaggio e arrivammo ad Auschwitz. Attraverso le feritoie del treno vedemmo le ciminiere. Usciva del fumo nero, assieme a qualche scintilla. Pensavamo che fossero le fabbriche dove saremmo andati a lavorare. Poco dopo i tedeschi aprirono i carri. Io incontrai i miei fratelli, e assieme a loro andammo a cercare mamma e mia sorella. Le trovammo quasi subito. Mia madre piangeva, aveva già capito tutto. Quando ci vide ebbe paura per noi e disse: "Andate via, presto". Poi aggiunse altre 4 parole: "Non vi vedrò più". Ci divisero in due file, maschi e femmine. Fummo completamente rasati, dalla testa ai piedi. Poi passammo in un'altra sala, dove facemmo delle docce. Infine ci assegnarono un numero, che ci venne tatuato sull'avambraccio sinistro.

Lei è sopravvissuto ad oltre 8 mesi di Auschwitz. Qual è il ricordo più terribile di quei giorni di prigionia?

L'arrivo, senza dubbio. La stragrande maggioranza fu portata con i camion verso le ciminiere. Allora non realizzammo subito, ma poi venimmo a sapere che solo il 20% di quelli che erano partiti superarono la selezione all'arrivo. Tutti gli altri, compresi i miei genitori, nonno Leone David e mia sorella Anna, furono subito ridotti in fumo e cenere. Ecco cosa era quella nube che avevamo intravisto dal treno.

Cosa provò quel 27 gennaio, quello della liberazione per mano dei sovietici?

Lo ricordo perfettamente. Furono liberati circa 7mila sopravvissuti, ma quasi la metà morì nei giorni immediatamente successivi, per gli strascichi di ciò che aveva appena dovuto affrontare. Quel giorno, un po' come tutti, provai indifferenza. Avevo perso tutti i miei parenti. Non c'era più nessuno, solo un silenzio agghiacciante.

So che per anni non è riuscito a raccontare tutto questo. Poi a un certo punto ha iniziato a parlare. Come mai?

C'è un motivo. All'inizio la gente non voleva credermi. Ricordo un colloquio con una persona. Mentre parlavo della fame che avevo sofferto, mi interruppe. Mi disse: "Credi che anche noi non abbiamo fatto la fame?". Come se la fame di Auschwitz fosse la stessa che anche io, del resto, avevo già affrontato a Roma.

Voi eravate numeri, oggi anche i migranti sembrano essere tali. Le vittime o i prigionieri del Mediterraneo si moltiplicano. Vede delle analogie con il passato?

"Non siamo ancora a quel punto, ma dobbiamo stare attenti. Penso che la gestione di questi immigrati dovrebbe essere affidata all'Onu, e non ai paesi che hanno deciso di non accettare più nessuno, magari facendo morire in mare 117 persone. Non è giusto, sono esseri umani. Dobbiamo tutti mobilitarci per loro. Ignorarli è come ucciderli. Quel che dicono oggi alcuni politici non è giusto: quando si dice 'prima gli italiani', bisognerebbe premettere che quando c'è una persona in pericolo, che sta per morire in mare, il nostro unico dovere è quello di salvarla.

Lei è ormai uno degli ultimi superstiti dell'Olocausto. Accanto a lei ci sono il suo amico-fratello Sami Modiano, la senatrice Liliana Segre e pochi altri. Cosa succederà quando i testimoni saranno tutti morti?

La memoria non è un semplice ricordo, ma un qualcosa in grado di rivolgersi e influenzare anche il futuro. È vero, noi sopravvissuti ormai siamo un po' tutti al traguardo. Ma ci siamo dati da fare per decenni per testimoniare quel che abbiamo visto. Spero che i giovani abbiano colto il nostro messaggio e sappiano cosa fare per dare un futuro a tutti gli esseri umani. E per fare in modo che quel passato non si ripeta. Mai più.

Video


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